Due scenari per la Turchia
Il referendum sulla riforma costituzionale tenutosi in Turchia lo scorso 12 settembre, a trenta anni dal colpo di stato militare, avrà notevoli implicazioni sia per i rapporti politici interni sia per quelli con l’Ue. Il pacchetto di emendamenti costituzionali è stato approvato a larga maggioranza, con il 58% dei sì e un’affluenza alle urne del 77%. La costituzione attuale, che gli elettori turchi hanno scelto di cambiare, è quella imposta dal regime militare nel 1982. Si tratta della riforma costituzionale più significativa – sono stati cambiati ben 26 articoli – e più dibattuta degli ultimi trenta anni. Ma non è che l’ultima di una serie di riforme iniziate nel 2001, quando Ankara e Bruxelles avviarono il processo di adesione all’Ue.
Diritti umani e controllo sui militari
Cosa prevede la riforma costituzionale e perché è stata fonte di così aspri contrasti, portando a nuove vette la lacerante polarizzazione politica nel paese?
In realtà, gran parte degli emendamenti non hanno suscitato molto dibattito, essendo largamente sostenuti sia in Turchia sia dall’Ue. I meno contestati sono quelli sui diritti umani: la creazione di un ombudsman, da anni richiesta da Bruxelles; il rafforzamento dei diritti delle donne, dei bambini, dei disabili e degli anziani; l’ampliamento dei diritti sindacali e l’estensione del diritto di sciopero ai funzionari pubblici.
Politicamente più delicati e significativi sono gli emendamenti riguardanti i rapporti tra potere civile e forze armate: la limitazione delle competenze dei tribunali militari esclusivamente alle infrazioni commesse dai militari nello svolgimento dei loro compiti e la facoltà dei tribunali civili di processare i militari per i crimini commessi durante il golpe del 1980 o nei successivi tentativi di golpe. Quest’ultimo emendamento – l’abolizione dell’Articolo 15 della costituzione – potrebbe teoricamente portare ad un processo della Corte suprema contro l’ex generale Kenan Evren, artefice del golpe del 1980 (1). Ma anche questi emendamenti che mirano a limitare il potere dei militari non hanno suscitato grossi contrasti, riscuotendo anzi un ampio consenso.
Il nodo giustizia
Il nocciolo del dibattito politico riguarda invece la riforma del sistema giudiziario, e in particolare della corte costituzionale e del consiglio supremo dei giudici e dei pubblici ministeri, le due istituzioni chiave del sistema giudiziario turco. La riforma prevede un aumento dei membri della corte costituzionale da undici a diciassette, tre dei quali verranno selezionati dal parlamento (e il resto dal presidente) tra i candidati prescelti dall’ordine indipendente dei magistrati. Verrà ampliato anche il consiglio supremo dei giudici e dei pubblici ministeri – passerà da sette a ventuno membri e a presiederlo sarà il ministro della giustizia.
L’obiettivo dichiarato di queste riforme è aumentare la rappresentatività del sistema giudiziario, storico baluardo del kemalismo, che, al pari delle forze armate, è entrato più volte in aperto e talora feroce contrasto con Giustizia e Sviluppo (Akp), il partito conservatore al governo dal 2002, che è capeggiato dall’attuale primo ministro Recep Tayyip Erdoğan (2). Sia la Commissione europea sia la Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa hanno appoggiato i cambiamenti costituzionali, giudicandoli in linea con gli sforzi di consolidare la democrazia e lo stato di diritto. L’opposizione – il partito repubblicano Chp e il partito nazionalista di estrema destra Mhp – si è schierata invece contro la riforma, convinta che metterà a repentaglio la separazione dei poteri, aumentando sempre più il potere dell’Akp e accelerando così l’islamizzazione del paese.
Turchia al bivio
La riforma costituzionale può aprire la strada a un ulteriore rafforzamento della democrazia in Turchia. Il risultato del referendum e il grande afflusso alle urne – nonostante il boicottaggio del partito pro-curdo Bdp – confermano il desiderio di democrazia e di riforma del popolo turco, che si esprime anche nel crescente attivismo delle organizzazioni della società civile(3). Ma non si può dare per scontato che la riforma costituzionale porti effettivamente a una maggiore democrazia. Dipenderà da come le riforme saranno concretamente attuate. L’Akp utilizzerà davvero le riforme per aumentare la rappresentatività delle istituzioni giudiziarie o se ne servirà per consolidare il proprio potere? Ugualmente importante è l’effetto che l’esito del referendum avrà sulle elezioni nazionali che si svolgeranno la prossima estate e sull’approccio del governo che si formerà dopo le elezioni alle successive riforme costituzionali e legislative.
Due gli scenari possibili. Il primo vede un Akp sempre più forte, sicuro di sé e convinto di non aver più bisogno del sostegno di Bruxelles. E che quindi cercherebbe sempre meno il dialogo e il consenso degli altri partiti e spingerebbe per nuove riforme, in modo non organico, ma selettivo, con lo scopo primario, se non esclusivo, di rafforzare il suo potere. Come già successo dopo le elezioni del 2007, che hanno portato a una nuova vittoria schiacciante dell’Akp, il partito di Erdoğan abbandonerebbe l’idea di varare una nuova costituzione e perseguirebbe la strada di riforme ad hoc sulle questioni cui tiene maggiormente (4). In questo scenario, le forze anti-Akp sarebbero a loro volta portate ad arroccarsi in un’opposizione tanto dura quanto sterile, lasciandosi così scappare, ancora una volta, l’occasione di mettersi in sintonia con gli umori degli elettori, interpretandone il desiderio di cambiamento. Preso nella spirale di una campagna elettorale muro contro muro, il governo accantonerebbe l’impegno a rilanciare “l’apertura curda” (Kürt açılımı) e i militanti del Pkk tornerebbero all’offensiva.
Nel secondo scenario, sia l’Akp che il Chp del nuovo leader Kemal Kılıçdaroğlu incentrerebbero la campagna elettorale sul progetto di nuova costituzione, che verrebbe poi portato avanti dal nuovo governo attraverso un processo aperto di dialogo con le parti politiche e sociali. In questo scenario, in cui le tensioni polarizzanti si attenuerebbero, l’Akp riaprirebbe il capitolo curdo, congelato oramai da un anno, evitando così una nuova spirale di violenza.
Il ruolo dell’Ue
Nei prossimi mesi assisteremo probabilmente a continue oscillazioni tra questi due scenari. Quale dei due prevarrà dipenderà innanzitutto dagli attori politici turchi, ma l’Unione europea potrebbe, con la sua azione, favorire il secondo scenario.
Il punto è che il processo di adesione della Turchia si avvicina sempre più allo stallo totale, a un “slow death”, una lenta agonia, come la chiamano a Bruxelles. Sono infatti solo tre i capitoli negoziali che, stante la posizione attuale delle varie parti, possono ancora essere aperti. Tutti gli altri sono bloccati: alcuni dalla Francia, altri dalla Repubblica di Cipro, altri ancora dal Consiglio europeo. Solo se il Parlamento europeo approvasse in autunno il regolamento sul commercio estero tra l’Ue e Cipro nord (Direct Trade Regulation), la Turchia aprirebbe i propri porti e aeroporti al traffico proveniente da Cipro, e l’Ue, a sua volta, potrebbe scongelare otto (e possibilmente tredici) nuovi capitoli negoziali. In questo caso si schiuderebbe uno spiraglio importante nel processo d’adesione della Turchia, e l’Ue si riapproprierebbe del ruolo di àncora che fu fondamentale per avviare il processo di riforma in Turchia, di cui il recente referendum è stata un’altra tappa cruciale.
(1) Scenario improbabile data l’età e lo stato di salute dell’ex-generale.
(2) Ricordiamo ad esempio il processo nel 2008 sulla chiusura del partito di governo Akp, accusato di minacciare la laicità del paese, che si concluse – per un solo voto nella corte costituzionale – con la sopravvivenza del partito.
(3) Ad esempio la mobilitazione contro l’assassinio del giornalista turco-armeno Hrant Dink nel 2007.
(4) Ad esempio l’Akp potrebbe reintrodurre la riforma sul velo, tentata nel 2007, ma poi accantonata dopo il processo al partito nel 2008.
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Vedi anche:
C. Merlini: Usa ed Europa di fronte al nuovo corso della Turchia
R. Aliboni: Il cuneo della Turchia nel conflitto mediorientale
D. Cristiani: Il ritorno della Turchia nel Golfo Persico