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Scenari

Il cuneo della Turchia nel conflitto mediorientale

9 Lug 2010 - Roberto Aliboni - Roberto Aliboni

L’oceano mediorientale presenta al momento una superficie increspata da una miriade di tensioni politico-diplomatiche, ma meno agitata che in altre epoche. La stampa araba specula quasi quotidianamente sull’imminente scoppio della terza guerra libanese, prevedendo un attacco dell’esercito israeliano che – questa è la teoria – il governo Netanyahu scatenerebbe per alleggerire, se non far cessare del tutto le pressioni dell’amministrazione americana sul versante palestinese. In realtà, non è possibile prevedere se questo o un altro sarà il punto di rottura della relativa calma che domina attualmente nella regione. Tuttavia, è indubitabile che, al di sotto della superficie più o meno mossa, si agitano problemi e conflitti di ogni genere, ciascuno dei quali potrebbe innescare una crisi grave e provocare quindi la rottura.

Due campi
Il Medio Oriente è oggi diviso più che mai in due grandi campi: quello guidato dall’Iran, che punta all’egemonia regionale sulla base di un’ideologia di tipo terzomondista e antimperialista, e quello della coalizione araba, politicamente e ideologicamente frammentata, conservatrice, più o meno esplicitamente coalizzata con i paesi dell’Occidente. Nel quadro di questo conflitto, l’islamismo sunnita è stato via via respinto ai margini: quello nazionale tende ad allinearsi con l’Iran, mentre quello transnazionale è diventato politicamente irrilevante. Sono trent’anni che la guerra fra questi due blocchi va avanti con alterne vicende.

La Siria, ideologicamente non omogenea all’Iran, sta tuttavia dalla parte di Teheran, aspettando che la pressione, se non la vittoria, del campo rivoluzionario le dia la leadership degli arabi. Una leadership che l’Iraq di Saddam Hussein aveva cercato, fallendo, mediante la vittoria militare. Non possiamo sapere che cosa ne sarà domani delle ambizioni siriane (l’eventuale conquista della leadership sugli arabi potrebbe subito portarla in rotta di collisione con il suo alleato), ma è evidente che nell’attuale configurazione conflittuale Damasco gioca un ruolo decisivo.

Perciò, se si vuole una svolta risolutiva in Medio Oriente, è forse dalla Siria che bisognerebbe cominciare. Questa prospettiva, adombrata da qualche analista, è invece oggi perlopiù trascurata. Sembrava che l’amministrazione Obama si fosse messa alla ricerca di un’intesa con Damasco, ma è oggi chiaro che la riapertura delle relazioni diplomatiche attuata da Washington non è stata altro che una mossa politicamente corretta: utile, ma priva di una discernibile prospettiva strategica.

La novità turca
La vera novità che sta emergendo è, se così si può dire, esogena rispetto alla guerra trentennale del Medio Oriente. Ci riferiamo ai nuovi orientamenti della politica estera della Turchia e alle nuove dinamiche che potrebbero innescare.

Solo nel passato decennio la politica estera di Ankara ha iniziato a sviluppare una dimensione mediorientale. Durante la sua prima esperienza di governo il partito religioso turco, sotto la guida di Necmettin Erbakan, aveva promosso più forti e stretti rapporti con il mondo musulmano in alternativa alla politica d’integrazione nel mondo occidentale promossa dal kemalismo. L’attuale partito Akp, sotto la guida di Recep Tayyp Erdoğan, persegue lo stesso fine, nel quadro però di una dottrina diversa, quella del suo ministro Ahmet Davutoğlu, basata sul “soft power” (che la Turchia possiede grazie al suo ruolo storico e culturale) e sull’obiettivo di “zero problemi con i vicini”. A differenza della politica di Erbakan, quella attuale è in principio del tutto compatibile con gli interessi dell’alleanza occidentale, cui la Turchia tiene tuttora ad appartenere, anzi è in principio molto utile perché dà una dimensione mediorientale cooperativa che gli altri membri dell’alleanza non saprebbero perseguire.

Questa politica ha prodotto risultati positivi, come la mediazione turca fra Israele e Siria (naufragata, ma non per colpa di Ankara). Il crescente contrasto con Israele a seguito dell’intervento a Gaza del 2008-09 e del recente incidente della flottiglia di veri o falsi pacifisti organizzata da una fondazione turca ha suscitato dubbi e preoccupazioni. Che sono stati ulteriormente rinfocolati dal no espresso dalla Turchia nel Consiglio di sicurezza dell’Onu alle nuove sanzioni contro l’Iran (che sono state comunque adottate). La Turchia sostiene Teheran nel contenzioso con il mondo occidentale sul programma nucleare iraniano perché reputa che l’arricchimento dell’uranio sia un diritto sovrano e non contestabile dei membri del Trattato di non proliferazione (Tnp).

Turchia come outsider
Ma qual è l’atteggiamento della Turchia nei confronti del conflitto mediorientale? È destinata a schierarsi con uno dei due campi, con il risultato di aggravarlo, oppure può essere un fattore di cambiamento ed eventualmente di pacificazione? La Turchia, alleata dell’Occidente, sta entrando in conflitto con gli interessi dell’alleanza o può aprire nuove strade?

Il coinvolgimento della Turchia nel conflitto mediorientale non sembra destinato a rafforzare uno dei due fronti. È infatti una potenza estranea ai contrasti ideologici, politici e settari che sono alla radice del conflitto in corso, interessata ad affermare un proprio ruolo nella regione, ma cercando un equilibrio regionale sostenibile al posto del conflitto endemico che oggi prevale. Perché questo sia possibile, tuttavia, la classe dirigente turca dovrà applicare la dottrina Davutoğlu in termini più coerenti e soprattutto più equilibrati di quello che sta succedendo oggi. Le buone relazioni che la Turchia ha intessuto con i vicini negli ultimi anni non dovrebbero basarsi sulla supposta proprietà transitiva secondo cui i nemici dei miei amici sono anche miei nemici. Zero problemi con i vicini significa la ricerca di un equilibrio e di una convivenza anche regionale. La dottrina Davutoğlu dovrebbe far valere la regola aurea del buon vicinato a livello regionale, applicandola non solo alla Siria e all’Iran, ma anche agli altri stati, incluso Israele.

Se la Turchia non compirà questo passo, c’è il rischio che vada a ingrossare le file di uno dei due campi, con conseguenze deleterie per gli interessi occidentali. Esistono però molti motivi per ritenere che questo non avverrà. La Turchia è troppo grande per allinearsi con l’Iran o limitarsi a servire l’arrocco della Siria e, d’altra parte, è troppo moderna e avanzata per allinearsi con i paesi arabi moderati. Perciò cercherà probabilmente di rafforzare quelle componenti un po’ sparse e trasversali che ritengono necessario un colloquio fra le parti in lotta nel quadro di una più piena autonomia dalle potenze non regionali. Questa opinione la si ritrova oggi un po’ dappertutto, compresi in Iran e nell’Arabia Saudita, ma nella società civile, non nei governi. Riflette il pensiero di gruppi liberali, islamisti modernisti e nazionalisti secolari. È una corrente nazionalista che si ricollega, per certi versi, al pensiero terzomondista, ma non è in contrasto con gli interessi occidentali. In fondo è la corrente ideologica che oggi prevale in Turchia (e che molti in Occidente confondono con una possibile deriva islamista) e attorno a cui potrebbe coagularsi una sorta di terza posizione.

Responsabilità occidentali
L’Occidente dovrebbe incoraggiare la Turchia a svolgere questo ruolo, adeguandovi le sue politiche. Se lo farà, gli sforzi di conciliazione della Turchia avranno molte più chance di contribuire a un compromesso fra le parti mediorientali e alla “trasformazione” del conflitto in corso. Se invece prevarrà il senso di un “tradimento” della Turchia con conseguenti tensioni e chiusure verso Ankara, c’è il rischio che il nazionalismo turco degeneri e porti il paesi a schierarsi con una delle parti in conflitto piuttosto che proporre nuove strade per la soluzione del conflitto in Medio Oriente.

Cosa deve fare, dunque, l’Occidente? Il rimprovero, che ora gli Usa rinnovano all’Ue, di non aver incluso la Turchia è giusto, ma è allo stesso tempo un po’ miope. È giusto perché il nazionalismo turco non è che una forma più disinibita di quello che corrode i membri dell’Ue; nondimeno, la cultura politica internazionalista delle alleanze occidentali resta un forte ancoraggio che servirebbe a mitigare e incanalare il nazionalismo turco, come oggi ancora incanala e mitiga quello degli alleati euro-occidentali. È però insufficiente, perché il problema non è solo europeo, ma anche americano. Riguarda l’Ue, ma anche la Nato.

Mettere l’identità turca in sintonia con quella europea può essere importante da molti punti di vista. Ma ancora più importante è impegnare l’alleanza atlantica in un rinnovato multilateralismo, e farvi maturare un orientamento più vicino alle ansie di giustizia e uguaglianza che vengono dal Medio Oriente. È necessario, in questo quadro, un adeguamento delle politiche occidentali a cominciare da quella verso Israele. Obama ci sta provando e gli europei lo sostengono, ma questa convergenza non si trasforma in una politica comune. Che invece è necessaria, se si vuole evitare che la Turchia conduca da sola, esponendosi a vari rischi, la politica giusta.

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Vedi anche:

D. Cristiani: Il ritorno della Turchia nel Golfo Persico

R. Aliboni: Falsa partenza per il nuovo negoziato in Medioriente