La Nato alla ricerca di una nuova strategia
Chi aveva sperato che affidare ad un gruppo di dodici ‘saggi’ indipendenti il compito di offrire raccomandazioni sul nuovo Concetto strategico della Nato avrebbe portato una ventata di novità è rimasto deluso. Il rapporto che il gruppo presieduto dall’ex segretario di stato Usa Madeleine Albright ha consegnato al segretario generale Anders Fogh Rasmussen lascia in sospeso una serie di problemi e riflette alcune ambiguità che caratterizzano il dibattito ‘ufficiale’ tra gli alleati.
Basso profilo
La mancanza di idee forti testimonia della difficoltà di definire una visione strategica ambiziosa che raccolga il consenso necessario. Il gruppo ha evidentemente preferito volare basso per offrire a Rasmussen un testo già accettabile alla totalità o quasi dei membri Nato. Il rapporto, lo ricordiamo, è stato concepito come contributo al negoziato sul nuovo Concetto strategico che è previsto gli alleati approvino al vertice di Lisbona di novembre (quello attuale fu adottato nel 1999). Da un’analisi del rapporto emergono le principali innovazioni che si profilano, ma anche i nodi più problematici con cui l’alleanza continua a misurarsi.
Il rapporto sottolinea come la proliferazione di minacce di vario genere e l’allargamento della Nato abbiano generato una tensione latente tra i diversi compiti dell’alleanza. I più importanti – la difesa del territorio alleato e la gestione/risposta alle crisi (anche per mezzo di interventi all’estero) – sono anche quelli più difficili da conciliare.
Pur sottolineando la centralità della difesa territoriale, i saggi insistono sulla necessità che gli alleati, in particolare quelli europei, raddoppino gli sforzi per ristrutturare le forze armate, passando da un modello ‘stanziale’ a uno ‘di proiezione esterna’ (expeditionary). Ciò è necessario non solo per meglio attrezzare l’alleanza al tipo di minaccia a cui è oggi maggiormente esposta, ma anche per riequilibrare oneri e responsabilità tra gli alleati (naturalmente, tenendo conto delle relative capacità) impegnati in operazioni come quella in Afganistan. I saggi rivolgono agli europei un accorato appello perché resistano alla tentazione di tagliare le spese della difesa, a dispetto dell’impatto della crisi sui bilanci nazionali. Altrimenti, ammoniscono, la coesione interna all’alleanza potrebbe allentarsi pericolosamente.
Lezioni afgane
Dall’esperienza afgana il gruppo trae altre lezioni per salvaguardare la solidarietà interalleata, come la raccomandazione di inserire le truppe della coalizione sotto un’unica catena di comando e di ridimensionare i caveat nazionali (le limitazioni imposte dai singoli governi all’impiego in combattimento delle loro forze). Mentre la prima raccomandazione è ragionevole – i contingenti dei paesi Nato in Afghanistan sono inseriti in differenti catene di comando, a danno della coerenza dell’azione – la seconda è di più difficile attuazione. Per diversi stati membri i caveat sono una condizione politicamente imprescindibile per partecipare a missioni in cui non sono in gioco, agli occhi di gran parte dell’opinione pubblica, vitali interessi nazionali.
I saggi consigliano inoltre di rendere i meccanismi decisionali più flessibili anche tramite limitati opt out, ma riconoscono che le decisioni relative alle missioni non possono che essere prese all’unanimità. Con un ripetuto ricorso a coalizione ad hoc si rischierebbe infatti di disarticolare l’alleanza. I saggi auspicano anche un rafforzamento dell’autorità del segretario generale, ma non è chiaro come ciò si possa realizzare se il potere di iniziativa sulle missioni resta interamente nelle mani degli stati membri.
Ambiguità sulla Russia
Eguali, se non maggiori, problemi di coerenza emergono nella parte del rapporto sulle relazioni con la Russia. I saggi sembrano sposare la tesi, abbracciata dall’amministrazione Obama, da alcuni stati dell’Europa occidentale e dallo stesso segretario generale Rasmussen, che la Russia vada sempre più trattata come un partner. D’altra parte, il rapporto insiste sulla necessità di aggiornare l’apparato di deterrenza e difesa convenzionale della Nato, per esempio attraverso la pianificazione d’emergenza ed esercitazioni militari in vista di possibili conflitti in Europa. Si tratta di iniziative che susciterebbero inevitabilmente preoccupazione, se non allarme, a Mosca.
I saggi ritengono che misure di rafforzamento della fiducia (confidence-building), a partire dalla riattivazione del Trattato sulle forze convenzionali in Europa (Cfe), potrebbero venire incontro alle preoccupazioni dei russi. Questo duplice approccio si ispira al rapporto Harmel, che negli anni ’60 seppe conciliare l’ammodernamento delle capacità di difesa e deterrenza della Nato con l’avvio del processo di distensione che sarebbe culminato nell’istituzione della Conferenza (oggi Organizzazione) sulla sicurezza e cooperazione in Europa (Csce/Osce). Le circostanze sono però diverse perché la Russia è più vulnerabile dell’Urss e quindi più sensibile ad ogni azione da parte della Nato che potrebbe minacciarne la sicurezza.
A questo proposito, merita una menzione speciale la parte sulle armi nucleari Usa schierate in Europa. Il rapporto ribadisce la posizione della Nato per cui esse contribuiscono a rafforzare la “deterrenza estesa” dagli Usa all’intero territorio alleato. E tuttavia i saggi fanno un veloce riferimento alla possibilità che la “distribuzione geografica” delle armi possa cambiare. Dal momento che alcuni paesi che ospitano le bombe – come la Germania – vorrebbero rimuoverle, mentre altri – in particolare i baltici – sarebbero disposti ad ospitarle, esiste almeno in teoria la possibilità di un loro spostamento ad est. Si tratterebbe di una mossa estremamente rischiosa: la Russia non potrebbe non esserne allarmata e si rischierebbe così una nuova escalation in Europa.
Enfasi sullo scudo antimissile
Pur nel segno di una forte continuità, il rapporto introduce alcune novità. La principale riguarda lo sviluppo di un sistema di difesa anti-missili balistici. I saggi invitano a considerarlo come parte della “missione essenziale” della Nato. Il rapporto insiste in modo inusuale sulla superiorità del piano di scudo antimissile di Obama rispetto a quello di Bush jr, non solo perché più adatto a proteggere da un attacco missilistico a raggio medio o intermedio dall’Iran (la minaccia contro cui è stato pensato), ma anche perché più facilmente integrabile nel sistema di difesa Nato. Per placare le ansie della Russia – che si era ferocemente opposta al piano di Bush jr di estendere lo scudo a Polonia e Repubblica Ceca – i saggi raccomandano alla Nato di invitarla a partecipare allo sviluppo dello scudo.
È degno di nota il modo in cui è cambiata la percezione delle difese missilistiche. A lungo considerate altamente destabilizzanti perché in grado di minare l’equilibrio assicurato dalla reciproca deterrenza, vengono ora viste come un fattore amalgamante non solo all’interno della Nato, ma potenzialmente tra la Nato e la Russia stessa. Benché ci siano ragionevoli dubbi sulla realizzabilità di uno scudo antimissile Nato collegato alle difese missilistiche russe, l’idea ha un seguito crescente sia in America sia in Europa e Mosca si è detta aperta a discutere la cosa.
Un’altra novità è l’enfasi sulle minacce non convenzionali, come gli attentati terroristici e gli attacchi cibernetici. Fondandosi sul precedente dell’11 settembre – quando il Consiglio atlantico invocò l’art. 5, base legale della difesa collettiva, in risposta agli attentati di New York e Washington – il rapporto sottolinea che attacchi del genere possono configurarsi come casi art. 5 e pertanto innescare una risposta armata collettiva, se provocano o rischiano di provocare danni in grande scala. I saggi collegano inoltre questo tipo di minacce all’art. 4, che richiede agli alleati di consultarsi sulle questioni che riguardino la loro sicurezza, ma anche alle missioni non-art. 5, condotte cioè per ragioni di sicurezza non direttamente legate alla difesa territoriale. Così facendo il rapporto anticipa uno sviluppo inevitabile nella definizione della strategia Nato, e cioè l’ulteriore ‘codificazione’ di compiti che hanno più a che fare con un’agenzia di sicurezza internazionale che con un’alleanza militare difensiva.
Dal regionale al globale
Il gruppo ripete più volte che la Nato è principalmente un’organizzazione regionale e che pertanto, nel far fronte a minacce emananti da zone al di là del territorio alleato, deve appoggiarsi a partenariati e cooperazioni con altri stati, gruppi di stati e organizzazioni internazionali. L’idea centrale è che la Nato si orienti verso un tipo di gestione delle crisi di natura cooperativa. Tuttavia la tipologia di partenariati varia sensibilmente. Quelli con Onu, Ue, altre organizzazioni internazionali, attori locali, ecc. rispondono all’esigenza di un approccio alla sicurezza che riconosca la centralità degli aspetti politici, sociali ed economici delle crisi (il c.d. comprehensive approach). Altri partenariati non sono facilmente inquadrabili – o non si esauriscono – nel perseguimento della sicurezza cooperativa. Mirano piuttosto a creare una rete di relazioni che consenta all’alleanza di estendere la sua influenza ad altre regioni in linea con le sue aspirazioni globali.
Vedi anche:
R. Alcaro: Combining Realism with Vision. Options for NATO’s new Strategic Concept
R. Alcaro: Il nuovo Concetto strategico della Nato: verso la quadratura del cerchio?
S. Silvestri: Nato, attenzione al due di briscola!
N. Ronzitti: Armi nucleari americane in Italia: che fare?