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Medioriente

Come cambiano le lobby pro-Israele

28 Apr 2010 - Maria Grazia Enardu - Maria Grazia Enardu

I rapporti tra Israele e Usa stanno attraversando una fase nuova, caratterizzata da un paradosso: le due parti ribadiscono in ogni occasione che il rapporto è solido, ma le divergenze politiche si sono accentuate e non se ne intravede all’orizzonte un superamento. Nel frattempo, si susseguono appelli di organismi e personalità pro-Israele, affinché Washington non abbandoni il suo principale alleato in Medioriente. Queste voci però sono troppo insistenti per non far pensare che scaturiscano dal timore di un bradisisma che potrebbe diventare incontrollabile.

Un terreno su cui si inserisce il continuo lavoro delle lobby filo-Israele negli Stati Uniti, spesso sbrigativamente definite lobby ebraiche, termine che semmai andrebbe usato solo per quegli organismi che lavorano sui rapporti tra comunità ebraica americana e le altre componenti del paese, nel governo e nella società.

Le lobby filo-Israele infatti sono assai composite, con una forte presenza non ebraica, e il loro sostegno a Israele ha un’amplissima gamma di motivazioni: ideali, religiose, politiche, economiche. A volte distinte, spesso mescolate, se non deliberatamente sovrapposte. O addirittura francamente antisemite: alcuni settori cristiani sostengono Israele e lavorano attivamente per rafforzarlo, in modo che possa radunare a sé gli ebrei del mondo, come profetizzato nella Bibbia, e porre la premessa all’Armageddon che – dopo la distruzione o semmai la conversione di Israele – annunci il ritorno di Gesù Cristo.

L’Aipac
Il mondo delle lobby filo Israele negli Usa ha visto in prima linea negli ultimi decenni l’American Israel Public Affairs Committee (Aipac), il gruppo più attivo e conosciuto. Dall’avvento al potere del Likud, nel 1977, l’Aipac ha assunto un ruolo crescente nel sostegno a Israele, sia in sede di Congresso sia nelle amministrazioni locali. Come tutti i public action Committee registrati per attività di lobbying, l’Aipac lavora alla luce del sole, e in particolare dedica ogni cura ai membri del Congresso Usa, sia scegliendo quali candidati appoggiare, sia vagliando con attenzione ogni aspetto delle loro attività che abbia relazione, diretta o indiretta, con Israele.

L’attività dell’Aipac tende però ad essere poco chiara in particolare su un aspetto: non è una lobby ebraica, e alcuni suoi membri, individui privati o società, ne fanno parte perché interessati a uno specifico aspetto dei rapporti tra i due paesi, ovvero quello economico. Al centro dell’attenzione sono soprattutto le forniture militari, sotto forma sia di aiuti americani a Israele, sia di acquisti o scambi. Se scoppiasse la pace all’improvviso, alcune lobby pro-Israele, ‘l’Aipac in particolare, ne risentirebbero fortemente. I grossi interessi che fanno capo all’Aipac la rendono però vulnerabile. Quando diventa troppo invadente suscita inevitabilmente rezioni all’interno degli Stati Uniti e spesso anche tensioni nei rapporti tra Washington e Gerusalemme. A volte l’Aipac sopravvaluta il suo pur rilevante peso rischiando di scivolare nell’interferenza. Nel 1992, il primo ministro Rabin, in visita negli Stati Uniti, colse l’occasione per una famosa lavata di capo all’Aipac, con l’esplicito invito a non intromettersi negli affari, internazionali e non, di Israele. Quest’ultimo, in verità, non è l’unico paese ad avere a Washington sia una rappresentanza diplomatica ufficiale sia gruppi di sostegno, ma è probabilmente quello per il quale queste due dimensioni sono più strettamente intrecciate, in maniera a volte controproducente.

Ci sono negli Stati Uniti diverse altre grandi associazioni che appoggiano Israele, alcune delle quali sono ebraiche, come ad esempio la Zionist Organization of America o il Jewish Council for Public Affairs, che comprende a sua volta l’Anti-Defamation League, in prima linea nella lotta all’antisemitismo. Non sempre le sfere di azione di questi organismi sono divise e definite, né potrebbe essere altrimenti. Ad esempio, il sostegno a Israele, in nome dell’assoluto valore della solidarietà del popolo ebraico, ha una ovvia valenza politica, ma passa anche per aspetti culturali e sociali. Primo tra tutti la vita delle comunità ebraiche e le scuole, istituzioni che vengono sostenute in ogni modo anche per evitare il pericolo maggiore da cui gli ebrei americani si sentono minacciati: l’assimilazione.

Formare nuove generazioni con forte attaccamento alle radici ebraiche e grande senso di solidarietà verso Israele è uno sforzo intenso e costante, reso difficile dalla grande articolazione degli ebrei americani, tra cui prevalgono i movimenti di ebraismo riformato. Molti di questi movimenti non sono affatto filosionisti, o per ragioni politiche o anche, e in numero crescente, per ragioni religiose. Gli ultraortodossi non riconoscono legittimità allo stato di Israele, perché non è il regno del Messia, e le loro attività politiche, lobbying compreso, sono volte alla difesa delle proprie comunità e di uno stile di vita di rigida osservanza, non di Israele in quanto tale. Tra i filosionisti poi abbondano i distinguo: sostegno a Israele ma non a certe sue politiche, allo stato, non al governo. Questo universo è attraversato da un continuo dibattito su come appoggiare l’uno senza automaticamente sottoscrivere le politiche dell’altro, con divisioni anche gravi tra ebrei americani ed Israele, ma soprattutto all’interno della comunità ebraica.

Le associazioni sioniste non ebraiche, annoverano Christians United for Israel, di tendenze millenariste, o altre, come la più moderata International Christian Embassy Jerusalem, tutte legate al mondo protestante e soprattutto evangelico, anche se il sostegno a Israele viene da alcune di queste visto in modo più critico, con attenzione anche all’aspetto palestinese.

Novità J Street
Ma l’Aipac è pur sempre la corazzata in prima linea e quando, due anni fa, in coincidenza con l’avvio della campagna presidenziale di Barack Obama, è nata J Street, la notizia ha destato poca attenzione: in fondo era solo l’ennesima associazione filo Israele, piccola e assai liberal, nulla che potesse togliere spazio ai grandi soggetti già sul campo.

J Street è stata fondata da un gruppo di giovani attivisti ebrei e il loro capo, Jeremy Ben-Ami, li riassume idealmente: ha iniziato giovanissimo l’attività politica nello staff di Bill Clinton, ha vissuto in Israele, conosce bene le due realtà. Ha creato un’organizzazione agile, con nuovi strumenti di comunicazione, per cercare e ottenere sostegno in quella grande componente dell’ebraismo americano che è giovane, ben diversa dai padri e dai nonni, spesso segnati dalle ferite e dalla memoria della Shoah. Una generazione decisa ad appoggiare Israele, ma non qualunque sua politica, soprattutto se contraddice i valori americani e ebraici: democrazia piena, diritti garantiti, giustizia come premessa alla pace.

L’arrivo di J Street ha suscitato, nel mondo pro Israele, sia grande interesse sia una seria preoccupazione. Sono volate accuse di antisemitismo, di essere ebrei che odiano se stessi, e si è cercato di ridurre, spesso ignorandolo, l’impatto del nuovo arrivato. Linea scelta anche da Israele e che ora sta lentamente rientrando, anche perché il governo e altri gruppi più avveduti – soprattutto l’Aipac – si rendono conto che J Street è una concorrente sul terreno più importante: quello delle nuove generazioni, protagoniste di un inarrestabile ricambio. Attaccarli frontalmente potrebbe significare perderli irrimediabilmente; meglio dunque usare la giusta misura di blandizia e sperare che J Street commetta errori.

Nuova identità
Benché possa sembrare che il terreno di confronto tra le lobby filo Israele sia prevalentemente politico, esso riguarda direttamente anche il modo di interpretare la religione. Il complesso mondo delle lobby filo Israele, e in particolare quelle propriamente ebraiche, opera attraverso una faglia quasi invisibile all’esterno, ma determinante nell’assetto dei rapporti tra ebrei americani (in verità, la cosa vale per tutta la diaspora) e Israele, soprattutto con governi fortemente connotati da componenti religiose.

L’ebraismo americano è, in larga parte, composto da denominazioni riformiste, in vario grado, mentre Israele è sempre più connotato da una rigida ortodossia, ostile ai movimenti riformisti. Questioni come la definizione di ebreo, o come il riconoscimento delle conversioni, possono apparire poco rilevanti se paragonate alla ricerca della pace e della stabilità in Medioriente. Ma esse sono invece di cruciale importanza e spaccano il mondo ebraico, diviso così tra Israele (che vuole sostegno acritico) e diaspora (che si sente chiamata ad essere paladina ma in condizione di subordinazione anche in tema di religione). La forte comunità ebraica americana, inoltre, si sta trasformando. Crescono demograficamente gli ortodossi, diminuiscono le componenti riformiste, peraltro con maggiori rischi di assimilazione e quindi alla ricerca di una nuova identità ebraica, meno codificata e più allargata. Tutti cercano nuovi rapporti con lo stato che incarna il sionismo realizzato. Una serie di mutamenti che investiranno tutto, mentre cambia anche l’America, sempre più composita, e la missione del sostegno a Israele diventerà ancora più complessa: richiederà soprattutto idee e metodi nuovi, da parte sia dei vecchi sia dei nuovi gruppi.

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Vedi anche:

R. Aliboni: L’illuminismo di Obama e la Realpolitik mediorientale

C. Calia: Militari Usa contro Netanyahu