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Medioriente

L’asse di ferro Siria-Iran

1 Mar 2010 - Lorenzo Trombetta - Lorenzo Trombetta

Beirut – Da Ronald Reagan a Barack Obama, sono cinque i presidenti americani che hanno dovuto fare i conti con la solida alleanza strategica tra Siria e Iran. Sopravvissuta al crollo dell’Unione Sovietica, rafforzata dalle due Guerre del Golfo, cementata dal comune obiettivo di contrastare l’egemonia israeliana nella regione. Questa volta sul muro di fronte al quale si è trovata l’attuale amministrazione americana è dipinta l’immagine che ritrae il presidente siriano Bashar al-Asad e il suo collega iraniano Mahmud Ahmadinejad sorridere mentre si fanno burla del segretario di Stato Usa, Hillary Clinton.

Durante la conferenza stampa congiunta lo scorso 25 febbraio a Damasco, con un’ironia ai limiti della derisione, Asad e Ahmadinejad hanno risposto alla signora Clinton, che poche ore prima da Washington aveva esortato Damasco a “cominciare a prender le distanze” dall’Iran. Di fronte ai giornalisti, il raìs siriano ha preso la parola con espressione seria e ha detto: “In effetti ci siamo incontrati oggi per firmare l’atto di separazione… poi a causa di una cattiva traduzione abbiamo firmato un accordo per cancellare la restrizione dei visti d’ingresso tra i nostri due Paesi…”. Fragore di risa.

A far crescere l’ilarità in sala-stampa ha contribuito Ahmadinejad, che si è rivolto direttamente alla Clinton: “Lei chiede di aumentare la distanza tra i nostri Paesi, ma questo è davvero impossibile… perché tra Siria e Iran non c’è alcuna distanza!”. Nuova cascata di risate.

Agli occhi degli osservatori occidentali, l’atteggiamento di al-Asad (più che quello di Ahmadinejad), è sembrato ai limiti dell’irriverenza se non dell’ingratitudine. Gli americani si dimostrano concilianti – avranno pensato in molti – e la Siria risponde con sberleffi. Secondo alcune diplomazie occidentali, il cambio di approccio della politica americana verso il Medioriente che si è registrato con il passaggio da Bush a Obama dovrebbe essere sufficiente a suscitare una maggiore apertura da parte delle leadership mediorientali. Ma sul terreno, ricordano da Damasco, non è cambiato nulla e le esortazioni della Clinton, a est del Mediterraneo, hanno un sapore di ingerenza di vecchio stampo.

La ‘lista-Burns’
Pochi giorni prima del vertice siro-iraniano, William Burns, vice segretario di Stato americano (già artefice dello storico riavvicinamento tra gli Usa e la Libia di Muammar Gheddafi) era volato in Siria insieme a Daniel Benjamin, il responsabile dell’antiterrorismo dello stesso Dipartimento per incontrare il presidente siriano. La visita di Burns e di Benjamin a Damasco era stata letta come un ulteriore segnale di apertura da parte di Washington verso la Siria, dove è appena stato nominato, dopo cinque anni di assenza, un nuovo ambasciatore americano.

Gli Stati Uniti avevano ritirato il loro rappresentante in Siria nel 2005, poco dopo l’assassinio a Beirut dell’ex premier libanese Rafiq Hariri, titolare anche di passaporto saudita e amico personale dell’allora presidente francese Jacques Chirac. Washington e i suoi alleati nella regione, in primis l’Arabia Saudita, avevano subito indicato la Siria come il mandante del crimine. Ma Damasco ha sempre respinto ogni accusa, attendendo pazientemente che sia George W. Bush che Jacques Chirac lasciassero il posto rispettivamente alla politica del dialogo di Obama e al pragmatismo di Nicolas Sarkozy.

Dal 2005 ad oggi la cosiddetta Rivoluzione antisiriana dei Cedri sostenuta da Riyad, Parigi e Washington, si è gradualmente affievolita e nella sua bacheca dei trofei può mostrare ormai solo la targa che ricorda la fine, nell’aprile 2005, della tutela militare siriana in Libano. Anche se le relazioni tra Beirut e Damasco sono ora improntate a un formale equilibrio, nessuno ha dubbi sul fatto che, dopo quattro anni e mezzo, l’influenza politica siriana tra l’Antilibano e il Mediterraneo sia stata parzialmente ristabilita. L’autonomia politica del Libano sembra inoltre essere scivolata in basso nell’agenda di Washington.

Per gli Stati Uniti sono altri gli scenari su cui la Siria potrebbe giocare un ruolo a loro favorevole, tanto che nella sua ormai celebre esortazione a Damasco di prender le distanze dall’Iran, la Clinton ha snocciolato la ‘lista della spesa’ presentata da William Burns ad al-Asad: “Abbiamo indicato ai siriani la necessità di una maggiore cooperazione con l’Iraq, la fine delle ingerenze in Libano e delle forniture di armi a Hezbollah, nonché la ripresa dei negoziati israelo-palestinesi”.

Gli unici due teatri su cui la distanza di interessi tra siriani e americani non è amplissima sembra essere il già citato Libano e, soprattutto, l’Iraq. Dalla Terra dei Due Fiumi, dove a giorni si apriranno le urne per le attesissime elezioni, gli Stati Uniti stanno cercando di uscire limitando le perdite. Damasco avrebbe promesso che farà valere la sua influenza sugli ambienti baathisti più turbolenti, ma al contempo ha fatto capire che non potrà nulla o quasi di fronte alla crescente forza e presenza iraniana a Baghdad.

Sarà un caso, ma proprio durante la conferenza stampa a Damasco, il presidente iraniano ha incluso anche l’Iraq – insieme a Siria, Iran e Libano – tra i Paesi che parteciperanno alla “distruzione dell’entità sionista”, se quest’ultima “dovesse ripetere gli errori del passato (lanciare una nuova guerra, ndr)”.

“America: così lontana, così vicina…”
Della lista-Burns, rimane dunque il ruolo della Siria nei confronti di Hezbollah e di Hamas. Su questo, Damasco accoglie di buon grado le carezze americane (del 19 febbraio è la decisione Usa di depennare la Siria dalla lista dei Paesi a rischio per i cittadini statunitensi), ma non rinuncia alle sue antiche priorità: vedersi restituite le Alture del Golan (occupate da Israele nel 1967) in cambio del ritorno al tavolo dei negoziati di pace.

In questo senso, il sostegno siriano a Hezbollah e alle fazioni radicali palestinesi è funzionale al suo braccio di ferro con Israele. Queste sono le uniche carte di peso che Damasco potrà in futuro mettere sul tavolo di un’eventuale intesa con gli Stati Uniti. Carte che la Siria non calerà mai fino a quando non sarà sicura di poter tornare sulle sponde del Lago di Tiberiade, anche solo tramite un accesso simbolico di una decina di metri di spiaggia.

L’alleanza strategica con l’Iran non sembra invece negoziabile. E non solo perché la Siria ha bisogno di un protettore regionale forte di fronte a Israele (agli occhi di Damasco, gli Usa, fidi amici dello Stato ebraico, non potranno mai sostituirsi alla Repubblica islamica), ma anche perché in questi trent’anni, nonostante le profonde differenze tra i due sistemi politici, l’alleanza con Teheran le ha garantito quella profondità geografica necessaria per non annegare nelle ostili acque interarabe.

Al presidente siriano che, insieme ad Ahmadinejad, si era detto “sorpreso” delle parole della Clinton e del fatto che gli Stati Uniti mirino a rovinare le relazioni bilaterali tra due Paesi amici della regione, ha risposto una responsabile del Dipartimento di Stato, citata il 26 febbraio dal quotidiano panarabo ash-Sharq al-Awsat: “Non ci opponiamo al fatto che Iran e Siria intrattengano sane relazioni bilaterali. Il nostro problema è piuttosto con quegli aspetti dei rapporti siro-iraniani che indeboliscono la pace e la sicurezza regionali”.

Per gli Stati Uniti, gli “aspetti” non “sani” dell’idillio tra Damasco e Teheran sono dunque il loro sostegno ai nemici di Israele: Hezbollah e Hamas. Su questo, all’indomani della visita dell’alto rappresentante Usa, ha risposto il quotidiano filogovernativo al-Thawra con un editoriale intitolato ‘America, così lontana e così vicina’. “Il nostro problema con gli Stati Uniti – si leggeva il 18 febbraio scorso – è Israele e la sua ombra nella politica americana. Tra noi e loro non c’è nessun altro problema”.

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Vedi anche:

B. Voltolini: Prove di dialogo con la Siria

R. Alcaro: Obama alla prova del negoziato con l’Iran