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Conflitto israelo-palestinese

Falsa partenza per il nuovo negoziato in Medioriente

11 Mar 2010 - Roberto Aliboni - Roberto Aliboni

La nuova iniziativa dell’amministrazione Obama per rilanciare i negoziati israelo-palestinesi si è subito arenata. Lo scoglio è lo stesso su cui sono naufragati tutti i tentativi precedenti: gli insedimenti israeliani nei territori occupati. Quando Israele ha annunciato un piano per costruire nuovi alloggi a Gerusalemme Est proprio durante la visita del vicepresidente americano Joe Biden, la reazione non si è fatta attendere: il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) Mahmoud Abbas e la Lega Araba hanno interrotto i colloqui indiretti (proximity talks) che erano stati appena avviati. Ma quali sono le prospettive che riparta davvero il processo di pace?

Va ricordato innanzitutto che nel settembre del 2009, dopo mesi di negoziati (di fatto, anch’essi indiretti), ci fu un vero e proprio collasso. Nella riunione al Waldorf Astoria di New York, dove Obama dovette prendere atto del fallimento, sia gli israeliani che i palestinesi apparvero del tutto disinteressati, quasi apatici. Poco dopo Thomas Friedman su The New York Times riferì che, secondo il Dipartimento di Stato, gli israeliani erano disposti a negoziare ma senza concedere nulla, mentre i palestinesi volevano l’accordo ma senza voler negoziare. E’ cambiato qualcosa di sostanziale da allora? O le mosse a cui si è assistito negli ultimi giorni rispondono a una mera convenienza diplomatica?

Sulla scena internazionale si sono prodotti, in effetti, numerosi e importanti cambiamenti. Proviamo ad elencarli.

Il cambiamento del quadro strategico
Innanzitutto, è cambiato il quadro strategico regionale. Il primo tentativo dell’amministrazione Obama di riprendere il processo di pace fu fatto nella prospettiva di un riavvicinamento con l’Iran. Un successo nel quadrante israelo-palestinese avrebbe dovuto favorire la ripresa in atto dei contatti con l’Iran e, al contempo, rafforzare gli arabi moderati e i loro legami con l’Occidente. Ma l’Iran ha invece irrigidito la sua posizione, il che ha ulteriormente inasprito i rapporti. L’ondata repressiva che ha fatto seguito alle contestate elezioni presidenziali in Iran ha innescato una nuova dinamica, rendendo più remota la prospettiva di una reintegrazione internazionale del paese e lasciando intravedere l’emergere di un’intransigente dittatura sempre più fondata sui militari.

In secondo luogo, l’indurimento dell’Iran e del suo “fronte” regionale è probabilmente all’origine di sviluppi come le infiltrazioni di Hizbollah in Egitto per sostenere Hamas e, soprattutto, il rifiuto da parte di Hamas delle proposte di mediazione egiziane miranti alla costituzione di un governo di unità nazionale palestinese. Questi eventi hanno, a torto o ragione, convinto l’Egitto a passare dalla parte delle potenze che bloccano Gaza. Il Cairo ha infatti deciso di costruire una formidabile barriera d’acciaio, che sprofonda nel sottosuolo da 18 fino a 30 metri, con l’obiettivo di impedire il trasferimento di merci e armamenti verso Gaza.

In terzo luogo la Siria, malgrado le aperture di Washington, non ha cambiato in nulla la sua politica estera. La Turchia, dal canto suo, è entrata sempre più direttamente nel gioco politico mediorientale, stabilendo nuovi contatti e legami con i palestinesi, la Siria e l’Iran, assai meno con il fronte arabo moderato. Inoltre, si è allontanata da Israele.

Questi sviluppi hanno reso ancora più urgente per gli arabi moderati serrare le fila fra loro e con gli Usa e accresciuto l’interesse degli americani a rafforzare la coalizione dei moderati. Non è quindi sorprendente che gli arabi ora appoggino Obama con più convinzione di quanto non fecero nel primo round, quando Washington chiedeva misure di fiducia per convincere Israele a fermare gli insediamenti e gli arabi gli risposero sostanzialmente picche. L’amministrazione Obama potrebbe aver perso ogni ragionevole speranza di sottrarre Hamas all’orbita di Teheran ed essersi convinta ad appoggiare Abbas comunque, cioè anche se quest’ultimo non vuole o non è in grado di raggiungere un accordo di unità nazionale.

Con gran parte degli attori internazionali più interessati che in passato a una ripresa del processo di pace, sembrano essersi ricostituite condizioni favorevoli a uno sforzo negoziale. Ma qual è la posizione delle parti del conflitto? Vogliono davvero un accordo e sono disponibili a un compromesso per raggiungerlo?

I tatticismi di Netanyahu…
Israele non è oggi realmente interessato al negoziato. La maggioranza della popolazione, cessato il terrorismo, non si sente più minacciata. È convinta che i due conflitti con Hizbollah in Libano e Hamas a Gaza, mettendo fine ai lanci dei razzi Kassam, abbiano ristabilito una sufficiente deterrenza, e vede nell’Iran e nel sostegno che fornisce ai suoi alleati nemici di Israele la vera minaccia strategica ed esistenziale. Perciò, la posizione più possibilista di Netanyahu verso il negoziato e le sue concessioni (la tregua negli insediamenti, l’accettazione dell’obiettivo dei due stati) non trovano nessun riscontro nella maggioranza dell’opinione pubblica e tanto meno negli alleati di governo, tanto che se i nuovi negoziati indiretti dovessero mettere capo a un compromesso, anche minimale, per ratificarlo sarebbe necessario un cambiamento della coalizione di governo, cioè un’alleanza con Kadima.

In realtà Netanyahu mostra di essere disponibile al negoziato per due ragioni: è un modo per legittimarsi nei confronti della comunità internazionale, ma anche per venire incontro agli americani, massimo partner strategico di Israele, che spingono per un rilancio del processo di pace. Recentemente Netanyahu ha detto al suo partito che per cooperare con gli Usa contro l’Iran sono necessarie concessioni sulla questione palestinese. Sul piano tattico, Netanyahu sa che di fronte a un rifiuto dei palestinesi ad accettare (l’inaccettabile) compromesso che gli prospetterà, ci sarà sempre una signora Clinton, o altri nell’amministrazione, pronti a dire che eppure erano state avanzate concessioni “senza precedenti”.

…e la strategia del riconoscimento di Abbas
Più difficile capire la posizione dei palestinesi. Hanno accettato questi nuovi negoziati indiretti per compiacere gli Usa, ma in realtà non ci credono. Abbas ha chiesto il viatico della Lega Araba per darsi un minimo di copertura politica, ma, pur ribadendo l’obiettivo dei due stati, non lo persegue più nel quadro di Oslo, vale a dire mediante il negoziato con Israele. La strategia è quella di perseguire il riconoscimento internazionale di uno stato palestinese entro i confini del 1967. Questo stato palestinese, con l’autorità che gli verrebbe dal riconoscimento internazionale, negozierebbe poi con Israele da una posizione di maggior forza di quella attuale.

Tutte le mosse recenti, incluso il piano Fayyad per un autonomo sviluppo della base economico-sociale del paese, puntano ormai in questa direzione. La destra israeliana, dal canto suo, guarda con forte preoccupazione alla strategia del riconoscimento internazionale , scorgendoci una replica di quella del Kosovo. È certamente una strategia destinata a dare molto fastidio a Israele e a minarne la legittimità internazionale.

Al momento c’è parecchio scetticismo sulla praticabilità di questa strategia. Tuttavia, non è escluso che si possano creare col tempo condizioni internazionali più favorevoli. Escludendo il negoziato con Israele, la strategia incentrata sul riconoscimento ha anche il vantaggio per Abbas di non esporlo continuamente al rischio, insito nel processo negoziale, di compiere atti che possono delegittimarlo agli occhi dell’opinione pubblica palestinese, favorendo Hamas.

La legittimità di Abbas, che nel settembre 2009, all’indomani del fallimento del primo tentativo di Obama, pareva compromessa, è stata dapprima rafforzata dai provvedimenti politici e costituzionali presi nel dicembre 2009 al fine di rinviare le elezioni e assicurare la sua permanenza alla testa sia dell’Anp sia dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp). La decisione degli arabi moderati di accantonare, di fatto, l’obiettivo dell’unità nazionale palestinese ha ulteriormente rafforzato la posizione di Abbas.

Oggi quindi Abbas ha una strategia nazionale convincente che lo sottrae al discredito dell’inevitabile fallimento dei negoziati con Israele e alla conseguente pressione di Hamas. Praticamente può perseguire, senza esserne delegittimato, una strategia “West Bank first” – coincidente con quella dell’amministrazione Obama.

Giochi di faccia
In conclusione, perché allora i palestinesi hanno accettato, almeno inizialmente, i nuovi negoziati indiretti? Per ragioni non dissimili da Israele. Hanno bisogno di compiacere gli americani e di avere il loro sostegno. Dopo tutto, non possono sperare di ottenere un riconoscimento internazionale senza l’appoggio degli Usa, o contro di loro, o solo con l’appoggio europeo (che esiste – vedi la dichiarazione Kouchner-Moratinos dell’8 dicembre 2009 in favore del riconoscimento internazionale – ma non è affatto detto che si concreti in una politica). Dunque, sono obbligati a stare al gioco, nella speranza di cambiarne a un certo punto la dinamica.

Le condizioni internazionali sono quindi favorevoli a una ripresa del negoziato, ma lo sono assai meno le dinamiche politiche all’interno del fronte israeliano e di quello palestinese. Per il mediatore americano George Mitchell il compito non sarà più facile di quello dell’anno scorso. Né stupisce più di tanto che il vicepresidente Biden, al suo arrivo in Israele, sia stato salutato da una salva di 112 nuove unità abitative israeliane in Cisgiordania, anche se, come ha precisato il portavoce di Tel Aviv, ne era stata decisa la costruzione prima della moratoria di dieci mesi annunciata da Netanyahu nel novembre scorso.

Il fatto è che nell’infiammabile clima politico mediorientale chi vuole sabotare gli sforzi di pace ha sempre buon gioco e alla diplomazia serve quindi un sovrappiù di pazienza e determinazione che non è detto l’amministrazione americana sia in grado di assicurare.

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Vedi anche:

S. Colombo: Due stati, unica soluzione per la Palestina

R. Aliboni: Berlusconi in Israele fuori tempo massimo

R. Aliboni: L’impasse di Obama in Medio Oriente