Berlusconi in Israele tra Scilla e Cariddi
Silvio Berlusconi è tornato per la terza volta in Israele. C’era già stato nel marzo del 2000, da leader di Forza Italia. Allora incontrò sia il presidente Ezer Weizmann che l’allora primo ministro Ehud Barak. Visitò anche lo Yad Vashem, il memoriale ufficiale di Israele per le vittime ebree dell’olocausto. Vi era poi tornato da presidente del Consiglio nel giugno 2003 per una visita lampo. L’Italia aveva in quel momento anche la presidenza dell’Ue e Berlusconi rimarcò di aver scelto di non incontrare il leader dei palestinesi Yasser Arafat, accettando l’aut-aut imposto da Ariel Sharon, che gli riservò un’accoglienza davvero cordiale. Altri leader europei, come il ministro degli Esteri Dominique de Villepin e il responsabile per la politica estera dell’Ue Javier Solana, non vennero invece ricevuti perché non rinunciarono a incontrare Arafat.
Massima amicizia
La terza visita di Berlusconi in Israele ha così avuto una cornice volutamente ampia e solenne, quasi da capo di stato. Anzi di più: il programma della visita del presidente Giorgio Napolitano nel novembre 2008, non includeva un discorso alla Knesset, come invece era stato per il suo predecessore, Carlo Azeglio Ciampi, nell’ottobre 1999.
Berlusconi è stato presentato come il miglior amico di Israele. Il linguaggio diplomatico, si sa, ha i suoi inevitabili superlativi, garbatamente mendaci (e la Germania di Angela Merkel? E gli Usa, con o senza Obama?), ma è la distanza tra le parole e la realtà che va misurata. Alcune dichiarazioni hanno in effetti fatto risaltare la componente puramente scenica della visita, ma anche la difficoltà a prendere posizioni equilibrate ed efficaci sui problemi più controversi del conflitto israelo-palestinese.
La visita è stata preceduta da un’intervista, scritta, al giornale israeliano liberal Haaretz, ritenuto il più autorevole del paese. Nell’intervista Berlusconi, tra l’altro, ha deplorato la colonizzazione della Cisgiordania come ostacolo alla pace. Chi si oppone a questa politica di solito parla di occupazione. Chi invece ritiene in qualche misura valido il millenario legame tra il popolo ebraico e la parte più importante dell’antico regno di Israele, ma ne vede anche i pericoli per il raggiungimento di un assetto giusto e stabile nella regione, preferisce parlare di presenza, insediamento, ritorno, senza negare i diritti dei palestinesi. La parola colonizzazione pone gli israeliani in Cisgiordania sullo stesso livello dei francesi in Indocina o in Algeria, e via dicendo. Una gaffe notevole, e se l’intento era quello di rimarcare un qualche mutamento di rotta, è dubbio che abbia colto nel segno.
Israele nell’Ue
Con un programma che prevedeva anche una visita all’Autorità palestinese, Berlusconi ha navigato tra Scilla e Cariddi, e alcune falle diplomatiche non hanno tardato ad aprirsi.
La visita a Gerusalemme ha avuto due momenti centrali: il ritorno a Yad Vashem, dettato dal protocollo, e il discorso alla Knesset, il parlamento israeliano. Onore altissimo anche se non esclusivo: l’elenco degli ospiti degli ultimi 10 anni include anche tre esponenti di punta della poco amata Unione europea. A Berlusconi è stata tributata una standing ovation, un momento molto gratificante per tutti gli italiani. Prima di lui, ne erano stati gratificati anche Angela Merkel (marzo 2008), Nicholas Sarkozy (giugno 2008) e persino Gordon Brown (luglio 2008), ma la palma dell’applausometro è andata sicuramente a George W. Bush (maggio 2008).
Il discorso alla Knesset è stato un esercizio difficile perché non si potevano eludere alcuni nodi estremamente delicati. Discorsi di questo genere non dovrebbero mai essere mutati all’impronta, per compiacere una platea che con la sua sola presenza e con gli applausi può facilmente indurre alla tentazione di dire qualcosa di più e di diverso di quanto appaia sul foglio.
Berlusconi ha cercato di toccare tutte le corde gradite, né poteva fare altrimenti. Ma con un’ecumenica collezione di argomenti: dal mea culpa sulle leggi razziali all’omaggio a due papi, dalla condanna del rapporto Goldstone dell’Onu (sui crimini di guerra commessi dall’esercito israeliano, nonché anche da Hamas, nella striscia di Gaza tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009), all’elogio del principio dei due stati, fino alla consueta riproposizione di una via economica alla pace, anzi di un piano Marshall (che Sharon nel 2000 voleva addirittura chiamare Piano Berlusconi). E naturalmente i temi del terrorismo, della bomba iraniana e così via.
Ma la chiusura del discorso dedicata al tema dell’ingresso di Israele nell’Ue ha dimostrato come la realtà di Israele sia poco capita, non è chiaro se volutamente o per ignoranza. L’argomento è grosso, ma per semplificarlo al massimo e dando per acquisiti tutti quei parametri economici che ne sono la premessa – e astraendo per un momento dalla questione dei confini – rimane il fatto che entrare nell’Ue come membro effettivo significa riconoscerne il principio di sopranazionalità, con tutti gli obblighi – e sono molti e impegnativi – che comporta. E soprattutto acquisirne il quadro normativo, per il passato e per ogni nuovo atto legislativo.
Israele non può farlo, senza cambiare profondamente la sua natura. Un Israele membro dell’Unione richiede prima l’elaborazione di un sionismo nuovo, anzi europeo. Non lo vedremo presto, e comunque Israele ha già una forma di associazione con l’Ue che gli basta e che al massimo può essere approfondita, ma non mutata. Nel 2004, l’allora ambasciatore in Italia, Ehud Gol, scrisse un articolo per ricordare che a Israele bastava l’associazione, e lo stesso tema è stato ripreso in un recentissimo articolo del Jerusalem Post, giornale ben poco liberal.
Poco si sa dei colloqui riservati tra gli italiani e gli israeliani, ma i temi di Siria, nucleare Iran e commesse italiane, Libano e Hezbollah devono esservi rientrati. Mentre molto si è insistito sugli accordi bilaterali: ben otto, firmati dai ministri che accompagnavano Berlusconi. Ma gli accordi sono scatole, che poi si può scegliere di riempire o no e in modi diversi.
Una perplessità storica: l’episodio raccontato alla Knesset da Netanyahu sulla madre di Berlusconi che durante l’occupazione nazista impedì a un poliziotto tedesco (a Milano?) di arrestare una donna ebrea minacciando in pratica il linciaggio da parte dei passeggeri del treno merita un riscontro o almeno un contesto più preciso. L’argomento è purtroppo assai serio e si spera che non ne sia stato fatto un uso strumentale.
“Pragmatismo romano”
La visita di Berlusconi a Ramallah, e il colloquio con Abu Mazen, pare siano state solo formalmente cordiali. D’altra parte, nemmeno davanti a un interlocutore palestinese si può mettere insieme nella stessa frase le vittime della Shoah e quelle di Gaza, troppe e troppo ingombranti essendo le differenze.
Ma il momento più insidioso è, come sempre, quello della conferenza stampa. Quella di Ramallah ha avuto il suo momento peggiore quando la più prevedibile delle domande (Presidente Berlusconi, ha visto il muro? Cosa ne pensa?) ha avuto una risposta maldestra se all’impronta, disastrosa se preparata: non l’ho visto, preparavo gli appunti degli incontri. Esattamente il tipo di scusa che anche gli israeliani trovano insopportabile: chi non vede la barriera di sicurezza oggi, chissà cosa non vedrà domani, se gli conviene. E la stampa israeliana, anche filogovernativa, non ha lesinato critiche anche durissime: il quotidiano israeliano Maariv parla di “pragmatismo romano” di un Silvio Cesare a spasso per il suo impero mediorientale.
Sempre davanti a Abu Mazen, in conferenza stampa, Berlusconi ha ribadito la necessità di bloccare la crescita degli insediamenti e ipotizzato come positiva la soluzione di uno stato palestinese sulle linee precedenti la guerra del 1967. Il che implica un massiccio sgombero di tutti gli insediamenti israeliani, compresa Gerusalemme est, che gli israeliani hanno dichiarato capitale unica e indivisibile, dopo averne allargato a dismisura i confini municipali: ovvero, uno sfracello. Ma è possibile che le parole pronunciate da Berlusconi non abbiano oltrepassato il muro, pardon barriera, che in verità non aveva notato e non siano così giunti a Netanyahu.
La necessaria sintonia con l’Ue
Un viaggio a Gerusalemme e Ramallah è oggettivamente una missione di estrema difficoltà, che richiede una profonda conoscenza delle situazioni e dei problemi, e del ruolo che vi giocano le diverse parti, ma senza scivolare nella trappola di voler compiacere tutti. Ognuno di loro, a ospite partito, tenderà a ricordare soprattutto gli aspetti negativi e le contraddizioni, e a dimenticare i magari genuini tentativi di mediazione, che semmai tenterà di usare contro gli altri. In Medio Oriente e soprattutto a Gerusalemme e Ramallah bisogna parlare un linguaggio coerente, pur ricco e articolato, se ci si riesce, nell’argomentazione e nella proposta: è il presupposto per costringere le parti a prendere atto della realtà, finché è ancora plasmabile.
Se l’Italia si vuole porre, oggi, alla testa di un’offensiva di pace, tra israeliani e palestinesi ma anche, per cerchi concentrici, di un’iniziativa diplomatica per dare stabilità a tutta la regione fino all’Iran, deve soprattutto essere consapevole che il suo peso è limitato, e che quindi le sue iniziative possono avere un effetto moltiplicatore solo se in piena sintonia con l’Ue. Sintonia che non esclude iniziative autonome, anche basate sulla diplomazia personale, ma senza mai perdere il contatto con Bruxelles e i principali attori della scena mediorientale. Né l’Italia può trascurare il ruolo del Quartetto (Usa, Russia, Ue, Onu) che rimane il principale strumento di pace: solo un’iniziativa strutturata che veda anche un consenso russo può dare risultati. Anzi, dovremmo presto cominciare a parlare di Quintetto: la Cina ha complessi rapporti con il Medio oriente, anche con Israele, e gioca su tutti i tavoli contemporaneamente, politici, militari, economici ed è tempo che si assuma anche le relative responsabilità.
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Vedi anche:
R. Aliboni: Berlusconi in Israele fuori tempo massimo