L’impasse di Obama in Medio Oriente
Per il Medio Oriente il 2009 è stato – tanto per cambiare – un anno difficile e probabilmente cederà il passo a un altro anno non facile. La novità principale del 2009 sono stati Barack Obama e la sua amministrazione. Una nuova amministrazione americana è sempre un fattore importante per il Medio Oriente. Ma Obama si è presentato con un programma che dà priorità proprio ai problemi della regione. Un programma, caratterizzato – dopo gli otto anni disastrosi di George W. Bush – da un approccio innovativo e da una dichiarata volontà di risolvere i conflitti in essere.
Una regione dilaniata
Tuttavia, sono emerse difficoltà considerevoli e nell’opinione pubblica mondiale, specialmente in quella della regione, le aspettative si sono tramutate in delusione. Il nuovo Presidente aveva sperato di arrivare al secondo anno del suo mandato avendo avviato a risoluzione il conflitto israelo-palestinese.
Al contrario, il conflitto è ora in uno dei periodi più incerti della sua lunga storia e, d’altra parte, il 2010 si apre con il lancio di uno nuovo sforzo bellico americano in Afghanistan, in un contesto di accresciuta violenza e instabilità in Pakistan, di profonde spaccature interne e radicalizzazione in Iran, di frustrazione e agitazione nel Levante, di persistente caos in Iraq, e sullo sfondo di uno scontro ininterrotto fra il radicalismo religioso transnazionale dei sunniti, il radicalismo religioso e nazionalista degli sciiti e il moderatismo nazional-sunnita. In questa prospettiva, nel più generale contesto dello scontro fra regimi sunniti e gruppi sciiti appoggiati da Teheran, un nuovo fronte si è aperto in Yemen.
Obama ha iniziato la sua presidenza accantonando la politica di scontro del suo predecessore e inaugurando al suo posto una politica di apertura e impegno, a cominciare, significativamente, dall’Iran, il massimo antagonista regionale degli Usa. Secondo la metafora che Obama stesso ha impiegato, gli Usa hanno teso la mano a Teheran aspettandosi che aprisse il pugno per stringerla. Washington in effetti è entrata nel negoziato nucleare accanto ai paesi europei, che vi erano impegnati già da tempo, e ha fatto capire di essere pronta a riconoscere il ruolo dell’Iran nella regione nel quadro di un’ampia intesa.
Nel frattempo, ha dichiarato di voler perseguire una strategia regionale del doppio binario basata su un assunto: il conflitto israelo-palestinese non deve attendere che vengano sciolti i nodi del Golfo – primo fra tutti quello dell’Iran – ma merita una sua soluzione autonoma, che può contribuire essa stessa a sciogliere i nodi della più vasta regione mediorientale. Obama ha così posto fine alla dannosa politica dei “due tempi” che ha dominato la strategia americana negli otto anni di Bush e si è decisamente avvicinato alla prospettiva dell’Europa.
Il pugno di Teheran
Nel corso dell’estate questa nuova strategia è stata messa però a durissima prova. Le elezioni iraniane non solo hanno riconfermato la presidenza di Ahmadinejad, ma hanno anche rivelato una forte e ostinata opposizione, che ha violentemente contestato il risultato delle elezioni e continua a farlo ad ogni occasione. La più recente è stata quella della morte dell’ayatollah Montazeri – il quale si trovava all’opposizione già dai tempi di Khomeini.
L’instabilità che vige a Teheran, indipendentemente dal giudizio di merito, impedisce al nuovo governo Ahmadinejad di accettare il negoziato – trovandosi in condizioni di debolezza – e pone agli Usa il problema dell’affidabilità del regime come interlocutore negoziale, nonché il dilemma se agire per indebolirlo o rafforzarlo. Si è quindi aperta una nuova fase negoziale sul nucleare del tutto inconcludente e apparentemente destinata a fallire. Il pugno di Teheran resta dunque chiuso, mentre la sua semantica si è fatta ancora più ermetica.
Lo stallo israelo-palestinese
D’altra parte, il tentativo di ripresa del negoziato israelo-palestinese risultava già fallito a settembre. All’Assemblea delle Nazioni Unite Obama aveva pensato di annunciare una positiva ripresa del negoziato e invece si è trovato di fronte a un muro contro muro. Obama e il negoziatore George Mitchell hanno agito sulla base di una strategia, quella del “West Bank first”, che in verità si era già dimostrata inagibile nel corso dell’ultimo anno della presidenza Bush.
Negli ultimi anni, le guerre con il Libano (2006) e con Hamas (2008), il controllo ormai assoluto del territorio in Cisgiordania (favorito dal muro e dalla collaborazione Usa-Autorità palestinese in tema di sicurezza) hanno cambiato la percezione di Israele. Gli israeliani si sentono sicuri e, il governo di destra, forte di ciò, non vede nessun motivo per rinunciare all’attività di colonizzazione o limitarla, né per negoziare.
Dall’altra parte, il leader palestinese Mahmoud Abbas vuole negoziare perché spera che una soluzione sia pure parziale aumenterebbe i consensi della popolazione palestinese e lo rafforzerebbe. Al tempo stesso, ogni volta che si arriva al dunque arretra di fronte alla possibilità di un compromesso per timore di prestare il fianco alla propaganda dei radicali di Hamas. L’idea di un negoziato risulta dunque sempre più estranea alle parti: il tentativo di Obama di rilanciarlo si è infranto proprio contro questo scoglio (oltre ad aver risentito di una strategia diplomatica molto discutibile). Da settembre si sente ogni tanto qualche nuova dichiarazione di buoni intenti, ma non sembra che l’amministrazione abbia un “piano B” per la soluzione del conflitto.
Il rebus Afghanistan
Il 2010 si apre dunque senza che l’Iran abbia aperto il pugno e con il conflitto israelo-palestinese tornato ad essere una priorità di terza categoria. Di fatto, la strategia di Obama si è rivelata impraticabile. Nella contesa con il radicalismo nazionalista iraniano, l’ultimo round è andato a quest’ultimo e ai suoi vari alleati, settari e nazionalisti, sparsi nella regione, dalle tribù montanare del Yemen del Nord, a Hizbollah, da Hamas a Damasco.
Nel frattempo, Obama ha anche avviato un nuovo approccio nei confronti del più ampio mondo mussulmano con il discorso del Cairo del giugno 2009, in cui ha affermato l’amicizia fra Stati Uniti e musulmani puntando al rafforzamento dei moderati e dei legami di alleanza con essi. Un obiettivo che Bush e i neoconservatori avevano perseguito cercando di promuovere una trasformazione democratica dei regimi arabi moderati. L’attuale amministrazione ha invece lasciato cadere ogni accenno alla democratizzazione basando la collaborazione sul perseguimento di fini politici comuni, a cominciare dal conflitto israelo-palestinese e dalla lotta all’estremismo islamico, sia nelle forme del nazionalismo iraniano che in quelle del fanatismo di radice sunnita (Al Qaeda, le sue affiliazioni e i suoi simpatizzanti).
Se la risposta nei confronti dell’Iran e del conflitto israelo-palestinese si è rivelata debole, in Afghanistan si è deciso, dopo una lunga gestazione, di impegnarsi a fondo contro il fanatismo sunnita. Una decisione presa negli ultimi mesi dell’anno, che è una vera e propria scommessa poiché affida ancora una volta allo strumento militare un problema i cui aspetti politici sono al tempo stesso decisivi e trascurati. Si tratta, ancora una volta di una guerra senza paletti politici che offrano una rete di sicurezza.
Il dilemma politico è duplice, perché riguarda l’Afghanistan, ma ormai anche il Pakistan, travolto dalla sua politica verso il vicino nordorientale e dalle alleanze trasversali che questa politica ha finito per suscitare fra islamismi allotrii e indigeni. Su tutto ciò grava l’esito disastroso delle recenti elezioni politiche, che hanno affidato nuovamente il paese a una figura ampiamente screditata come Hamid Karzai. Ciò rende ancora più complesso sia conseguire una vittoria militare, sia stabilizzare il quadro politico per poter avviare il ritiro.
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