Le cinque sfide dell’Alleanza Atlantica
La Nato cerca di cambiare pelle, ed è quindi normale che il vertice periodico in formato “ministri degli esteri” svoltosi a Bruxelles il 3 e 4 dicembre abbia avuto un’agenda assai sostanziosa. Importante non solo per gli argomenti trattati, ma soprattutto perché quanto concordato su uno di essi, l’Afghanistan, sarà la base per la posizione dell’Alleanza nella conferenza internazionale che si terrà a Londra il prossimo 28 gennaio. Ma la Nato non è solo questo, anche se quanto accade in Afghanistan ne riassume in un certo senso molte problematiche.
La concessione alla Bosnia-Erzegovina e Montenegro del Map (Membership Action Plan), il programma di cooperazione preparatorio all’adesione non è un passo di importanza secondaria, come pure le ulteriori aperture alla Serbia, il rilancio del partenariato con Mosca ed il nuovo quadro della difesa antimissile, dopo la recente rinuncia di Obama allo schieramento in Polonia e nella Repubblica Ceca. Ma il piatto forte, il termini di trasformazione, resta il Nuovo Concetto Strategico dell’Alleanza, lanciato nel vertice dei Capi di Stato e di Governo di Strasburgo-Kehl.
Per apprezzare il senso della “metamorfosi”, occorre rifarsi un po’ alla storia dell’Alleanza. Chi avesse sottomano il Manuale della Nato e volesse divertirsi a sfogliarlo, avrebbe la possibilità non solo di percorrerne la storia e di familiarizzare con articolazioni civili e militari invero assai complesse, ma rimarrebbe soprattutto colpito dalla quantità di concetti evolutivi e processi di adattamento che hanno avuto luogo nel tempo. Lentamente nei lunghi anni della Guerra Fredda, e assai più rapidamente dopo la caduta del muro di Berlino.
Ma ciò non basta, perché dopo l’11 settembre la necessità di cambiamento si è fatta davvero impellente, e di conseguenza ne è mutata anche la velocità. Dall’aprile 1949 a oggi si sono tenuti 23 summit, l’ultimo dei quali è quello di quest’anno a Strasburgo-Kehl, mentre il primo è da considerarsi non quello della fondazione, nel 1949 a Washington, ma quello del dicembre 1957 a Parigi. È qui che si affermarono i principi cui si ispira tuttora l’alleanza, si posero le basi per il suo funzionamento e furono stabilite – nel così detto Rapporto dei tre Saggi – le aree di collaborazione non militare. Nei primi 40 anni, durante la guerra fredda, si tennero solamente dieci summit, e nei successivi venti ben tredici. Questo spinge davvero a qualche riflessione sul cambiamento.
Un po’ di Storia
Relegato agli atti della Storia – così almeno speriamo – il confronto nucleare, il percorso della nuova Nato inizia a Londra nel 1990, dove viene approvata la Dichiarazione sulla trasformazione e sottolineata l’esigenza di cooperazione politica, economica e militare con i paesi dell’Europa centrale e dell’est. Ma il vero, primo passo importante verso la modernizzazione è avvenuto con il summit di Roma del 7-8 novembre 1991. È infatti a Roma, con l’approvazione di diversi documenti – i più noti sono la Dichiarazione di Roma e il nuovo Concetto Strategico – che vengono gettate le basi per la Nato di oggi.
Al vertice di Bruxelles del 1995 sono poi approvate la Partnership for Peace (PfP), le misure per dare contenuto all’Identità europea di sicurezza e difesa (Esdi) e la disponibilità, su richiesta dell’Onu, a compiere attacchi aerei selettivi in Bosnia-Erzegovina. A Parigi nel maggio1997 veniva istituito un Consiglio permanente Nato-Russia e in luglio, a Madrid, si aggiorna il Concetto Strategico e si invitavano all’adesione la Repubblica Ceca, l’Ungheria e la Polonia. A Washington, nel summit del cinquantenario dell’aprile 1999, viene adottato il Membership Action Plan (Map) per preparare le successive adesioni e si lancia l’iniziativa sulle armi di distruzione di massa Wmd). A Pratica di Mare, nel 2002, si dà nuova veste al Consiglio Nato-Russia, mentre a Praga si enfatizza la politica delle “porte aperte”, invitando Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia. Viene inoltre deciso un supporto militare ai paesi dell’Alleanza già impegnati in Afghanistan.
Segue, nel giugno 2004, il vertice di Istanbul, dove si prendono decisioni destinate ad impegnare a lungo l’Alleanza. Tra queste, la graduale espansione delle operazioni Isaf a tutto l’Afghanistan e la creazione di 19 gruppi provinciali di ricostruzione (Prt). Si lancia anche la così detta Iniziativa di Cooperazione di Istanbul verso i Paesi del Medio-Oriente “allargato”. Nel febbraio 2005, a Bruxelles, il summit accusa segni di incertezza e si limita a riaffermare il supporto Nato per la stabilità nei Balcani, in Afghanistan e in Iraq, ripromettendosi, nel frattempo, di rafforzare la partnership tra Nato e Unione Europea.
A Riga, a novembre 2006, è richiesto agli Stati membri uno sforzo maggiore per l’espansione dell’Isaf e si invitano Bosnia, Montenegro e Serbia a partecipare alla Partnership for Peace (PfP). Parallelamente, si chiede più impegno per stabilizzare il Kosovo.
Nel 2008 è il turno di Bucarest, ma l’agenda limita i lavori alla valutazione degli impegni militari (Afghanistan e Kosovo), all’invito ad Albania e Croazia e a un principio di accordo sul nome della Macedonia. Sotto il profilo dottrinale, risultato di rilievo è la decisione dei Capi di Stato e di Governo di procedere nella gestione delle crisi secondo il così detto Comprehensive Approach. Al di là di questo faticoso percorso, patrimonio della Nato è la dotazione di procedure che la rendono unica per capacità di crisis management e di intervento.
Uno sguardo critico
Se ciò ha salvato l’identità della Nato, ripropone il problema della sua utilizzazione come braccio operativo dell’Onu, ai fini dell’applicazione dei capitoli VI e VII della Carta. Oggi la Nato, obbligata dai compiti che si è autoconferita, sembra quasi ostaggio dei suoi stessi principi, e sovente soffre di una contraddizione tra gli accordi sottoscritti nei summit e un’evidente riluttanza degli Stati a fornire le risorse per onorarli. Non di rado, si è trovata ad affrontare in parallelo, a pettine, un misto di problemi che, con le forze rese disponibili, forse era meglio affrontare singolarmente.
L’Afghanistan, dove si è cercato di fare tutto e di più prima di conseguire un sufficiente grado di controllo del territorio, ne è esempio eloquente. Kabul a parte, il livello di risoluzione dei problemi affrontati dalla Nato non appare per nulla soddisfacente. Se nei Balcani 15 anni or sono è stata fermata una strage, oggi ci si rende conto che la risoluzione del problema richiederà un cambio generazionale nelle leadership locali e che il metodo della settorializzazione comporta la permanenza di truppe a tempo indefinito. Se ciò ha consentito di evitare altri morti, ha anche perpetuato la crisi, mantenendola congelata.
Idem per il Kosovo, dove si sono creati precedenti che qualcuno ha già cercato di sfruttare. L’allargamento ai paesi dell’est ha avuto successo, ma ora si contrappone alla politica di avvicinamento Nato-Russia che, nonostante le ottime premesse, stenta a decollare e sovente regredisce. Intanto, dopo le dispute tra Gazprom e Ucraina, i nuovi membri dell’est chiedono una politica di sicurezza energetica più ferma nei confronti della Russia. Ma la Nato nicchia. Gli stati hanno aderito all’invito lanciato a Riga a un maggiore impegno nelle operazioni, ma gli incrementi sono lenti, non risolutivi, e solo gli Stati Uniti – ispiratori dell’appello – hanno sinora risposto in modo concreto e sostanziale.
Anche il rapporto Nato-Unione Europea sta procedendo a bassa velocità e con alterne vicende, non agevolato dalle diverse visioni del mondo. Può darsi che l’attuale tentativo americano di rilanciare il multilateralismo serva a migliorarlo, ma è tutto da dimostrare. Le differenti opinioni sulla crisi economica – come è risultato evidente nei vertici del G20 – e un’eventuale fallimento della politica della mano tesa, potrebbero ben presto spingere gli Stati Uniti verso un nuovo decisionismo, con decadimento dell’interesse per la Nato e per la stessa Europa. Ma con un’America defilata, la capacità contrattuale della Nato non sarebbe molto dissimile da quella dell’Unione. Ovvero, assai scarsa. Se così fosse, per l’Alleanza si potrebbe profilare una nuova crisi di identità, mentre il ritorno della Francia difficilmente varrà ad agevolare i rapporti tra gli alleati.
Può sembrare una visione pessimistica, ma non lo è. È solo un apprezzamento, disincantato ma realistico, del lungo percorso dell’Alleanza dopo la caduta del muro. Ma è anche un tentativo di affrancare il giudizio dalle tentazioni del politicamente corretto, riconoscendo onestamente che la strada della Nato non è affatto in discesa e che l’impegno, anche militare, è destinato a perpetuarsi in vari luoghi del mondo. Pare proprio, paradossalmente, che l’utopia della pace pretenda una guerra infinita.
Cinque nodi da sciogliere
Qualche segnale di miglioramento è venuto dal recente vertice di Strasburgo-Kehl, dove l’Alleanza ha dato l’avvio – con il ritardo che normalmente compete alle decisioni storiche – ad un’ulteriore ripensamento di sé stessa, per vincere le sfide attuali e, con una certa lungimiranza, anche quelle future. L’Afghanistan effettivamente ha suonato il campanello d’allarme, ma l’esigenza di rigenerazione non deriva solo da questo. Ci sono almeno quattro buone ragioni per cui è necessario rinnovare.
La prima è che d’ora in poi i paesi membri vorranno veder legittimato con maggiore certezza, prima di autorizzarlo, l’uso della forza in operazioni che superino il concetto di autodifesa. La seconda ragione consiste nella necessità di dare un’interpretazione allargata all’articolo 5, la cui applicazione, votata all’unanimità e a caldo subito dopo l’11 settembre, ha posto di fatto la Nato in uno stato di guerra. È evidente come, in un mondo globalizzato, i limiti che si era posta nel 1999 siano ora d’impaccio.
La terza ragione è che la Nato deve cambiare – o almeno chiarire – le sue relazioni con l’Unione Europea e con l’Onu, e qui la questione è reciproca. Se non lo fa, rischia di diventare di volta in volta il braccio armato dell’Onu, o una “coalizione di volonterosi”, o tutte e due le cose, snaturando la sua identità. Il quarto motivo, che discende dal terzo, riguarda soprattutto i membri dei paesi che sono anche parte della Ue, i quali temono, confrontandosi su questi temi e sui rapporti con la Russia, di compromettere la costruzione della casa europea e sarebbero quindi contenti di non smuovere troppo le cose, mantenendo per quanto possibile lo status quo.
Vi sarebbe, poi, anche una quinta ragione, meno esplicita, perché la pelle dell’Alleanza debba e possa cambiare in fretta: la Russia sta già modificando la propria dottrina strategica e ben presto potremmo avere da Mosca annunci importanti. Ad ogni modo, dopo il summit a livello di Capi di Stato e di Governo di Strasburgo-Kehl, la conferenza dei ministri degli esteri della Nato tenuta la settimana scorsa a Bruxelles potrebbe rappresentare proprio quel colpo di reni necessario a dare impulso al cambiamento su tutto il fronte, dall’Afghanistan al nuovo concetto strategico, dal nucleare ai rapporti con l’Onu e la Ue, dalle relazioni con la Russia al problema della sicurezza energetica. In tutto questo, ci sarebbero anche le premesse perché il ruolo dell’Italia, con un po’ più di impegno, non sia affatto secondario.
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Vedi anche:
S. Silvestri: Il dubbio amletico della Nato
A. Marrone: L’Italia e la Nato del futuro