Prove di accordo tra Turchia e Armenia
Il 10 ottobre 2009 è stato firmato a Zurigo dal Ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoglu e dal suo omologo armeno Edward Nalbandian, l’accordo per la definitiva normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Turchia e Armenia. I rapporti tra i due paesi erano stati interrotti ben sedici anni fa, portando alla chiusura delle rispettive frontiere ed all’interruzione di ogni contatto diplomatico ufficiale.
L’importanza del momento è stata sottolineata dalla presenza, alla firma dell’accordo, del segretario di Stato americano Hillary Rodham-Clinton, del ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov (i maggiori alleati delle parti in causa), dell’Alto rappresentante per la Pesc Javier Solana e del ministro degli esteri francese Bernard Kouchner.
Da circa un anno, Armenia e Turchia avevano intensificato contatti informali per raggiungere un’intesa, il che è avvenuto ufficialmente il 24 aprile 2009, quando i due governi hanno annunciato l’intenzione di procedere su un percorso (road-map) di pace comune. Annuncio però che a molti era sembrato simbolico (il 24 aprile è il giorno in cui l’Armenia commemora le vittime del genocidio del 1914-15); i mesi successivi, segnati da un calo d’interesse da parte di entrambe le parti verso tale road-map, sembravano confermare le prime impressioni.
Il problema aperto del Nagorno-Karabakh
Del resto i rapporti tra Armenia e Turchia sono qualcosa di ben più complesso di una semplice contesa sulla memoria del genocidio armeno avvenuto durante il primo conflitto mondiale. Dal 1992 il conflitto nel Nagorno-Karabakh ha ulteriormente complicato le cose: una porzione di Azerbaigian abitata da popolazioni di etnia turca è stata occupata (e lo è tutt’ora) dalle truppe armene.
La firma del 10 ottobre avrebbe dunque anche riacceso le speranze dell’Azerbaigian per una conclusione positiva del problema del Nagorno-Karabahk. Ilqar Mammadov, analista politico di base a Baku, in una recente intervista a Radio Free Europe sottolineava come la presenza alla cerimonia della firma dei tre paesi co-presidenti (Francia, Russia e Usa) del Gruppo di Minsk, creato dall’Osce nel 1992 per raggiungere la pace nel Nagorno-Karabahk, sia un chiaro segnale del collegamento tra i due argomenti, per quanto non esplicitamente citato nell’accordo.
L’accordo di Zurigo lega, tuttavia, la riapertura dei confini all’approvazione del protocollo d’intesa da parte dei rispettivi parlamenti nazionali. Non è uno scoglio da poco. Il Primo Ministro Erdogan ha infatti dichiarato che il Parlamento turco potrebbe rifiutare la ratifica dell’accordo nel caso in cui l’Armenia neghi il ritiro delle proprie truppe dai territori occupati del Nagorno-Karabakh. Notizie confortanti non arrivano nemmeno dall’altra parte del confine. Il 20 ottobre sono stati resi noti i risultati di un sondaggio condotto dall’Associazione sociologica armena, da cui risulta che il 52% degli intervistati si oppone a questo accordo e solo il 39% è invece a favore.
Un percorso tutto in salita
Più che la conclusione di un percorso, l’accordo rappresenta quindi l’inizio di un nuovo processo. Gli effetti benefici che tale evento potrebbe produrre in prospettiva sono molti e su aree diverse.
Innanzitutto una distensione dei rapporti aiuterebbe le economie interne dei due paesi. L’Armenia è chiusa ad est e ad ovest ed è quindi stata costretta, fino ad ora, ad utilizzare lunghe e costose vie di comunicazione che passano per la Georgia e l’Iran. La Turchia ha una situazione economica generale decisamente migliore, ma la sua regione orientale al confine armeno è la parte più povera del paese, con costanti difficoltà di sviluppo e di omologazione con gli standard nazionali. Appare evidente quindi come una più organica e sistematica integrazione di queste aree nei mercati regionali e globali non potrebbe che giovare ad entrambe le parti.
Tutto questo sarebbe di particolare interesse per quanto riguarda le rotte energetiche. Uno stato armeno inserito nel sistema energetico eurasiatico infatti, rappresenterebbe una risorsa importante per il sistema di rifornimento europeo – se non addirittura un’alternativa al sistema integrato russo – dato che sarebbe in grado di aprire nuove rotte per le risorse del Caspio ed orientali in generale, evitando il passaggio in territorio russo.
Infine, la possibile pacificazione del Nagorno-Karabakh potrebbe rappresentare il punto di partenza per la progressiva smilitarizzazione di un’intera regione a continuo rischio di conflitto, dovuto alla intensa mescolanza di etnie e culture. Da tale eventualità trarrebbe giovamento la sicurezza dell’intera area a cavallo del Mar Nero, con evidenti ricadute sia sul sistema politico sia, come detto, su quello economico ed energetico.
Ma da un punto di vista concreto dei rapporti tra Ankara e Yerevan c’è ancora molto da fare: dalla richiesta di riconoscimento del genocidio armeno alla situazione nel Nagorno-Karabahk, dalla smilitarizzazione della zona cuscinetto creata lungo il confine al ristabilimento di normali e proficue relazioni politiche ed economiche.
Quello che invece appare certo ed evidente già oggi è l’impronta che il nuovo Ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu, sta dando alla politica estera del suo paese. La normalizzazione dei rapporti con l’Armenia infatti non mira solo a sistemare una questione che si trascina da decenni, ma si inquadra nel contesto più ampio dei rapporti internazionali delle Turchia, in particolare di quelli con l’Unione Europea.
Nel contesto d’incertezza in cui va doverosamente accolta questa buona notizia, un punto si può fissare con ragionevole sicurezza: la Turchia ha ormai stabilmente adottato una politica di consolidamento delle proprie relazioni esterne, sia ad est sia ad ovest, al fine di affermarsi come autorevole e stabile potenza regionale agli occhi dei suoi maggiori interlocutori globali come Unione Europea e Stati Uniti.
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Vedi anche:
A. Bonzanni: La corsa al gas e la strategia tous azimuts della Turchia
N. Mikhelidze: Russia e Turchia nel labirinto del Caucaso meridionale