Il rebus delle riforme in Bosnia-Erzegovina
Il principio su cu si basa la struttura costituzionale bosniaca è quello del “power sharing”. Questa formula, riconoscendo l’impossibilità di attuare qualsiasi forma di integrazione tra i diversi gruppi nazionali, prevede la formazione di uno Stato decentralizzato dove la quasi totalità delle competenze viene lasciata alle due entità statali, la “Repubblica Srpska” a maggioranza serba e la “Federazione di Bosnia–Erzegovina” abitata in maggioranza da musulmani e croati.
Divisioni etniche
Questo assetto istituzionale tende a favorire la rappresentanza soltanto ai cittadini di nazionalità serba, croata o musulmana e ad escludere di fatto la partecipazione di quelli non appartenenti a queste tre etnie. Ragione che ha indotto i partiti politici a legarsi strettamente con i gruppi nazionali di riferimento, portandoli a sviluppare delle piattaforme programmatiche basate esclusivamente sul nazionalismo. Ad indebolire le istituzioni bosniache contribuisce anche la spropositata dimensione dell’apparato governativo. Oltre alle due entità statali e al governo centrale, esistono i dieci cantoni componenti la “Federazione della Bosnia–Erzegovina”, il distretto speciale di Brcko e 148 municipalità, per cui su un paese di appena quattro milioni di abitanti sono presenti quattordici diversi primi ministri, oltre settecento membri delle Assemblee legislative e vengono usate tre diverse lingue ufficiali con un costo di mantenimento per l’intera struttura pari a quasi il 60% del Pil annuale.
Il ruolo della Comunità internazionale
Negli ultimi anni si è assistito ad una sempre più incisiva azione della comunità internazionale per avviare delle riforme. Si è prima deciso di introdurre un’autorità sulla tassazione indiretta (Ita) incaricata di raccogliere a livello nazionale le entrate provenienti dalle imposte indirette nonché quelle derivate dalle esportazioni e dal traffico stradale. Quindi è stato varato il nuovo modello di difesa, con cui le forze armate delle due entità statali sono state unificate in una forza militare nazionale, sottoposta al comando di uno Stato Maggiore e di un Ministro della Difesa centrale.
Un più ampio progetto è stato poi presentato tre anni fa dall’allora vice Alto Rappresentante Donald Hays, con l’appoggio degli Stati Uniti e dell’Unione Europea. Denominato “April Package”, il progetto prevedeva l’introduzione di un unico Presidente designato non più dagli elettori, ma dal Parlamento, il rafforzamento dei poteri del Primo Ministro e del governo centrale a cui sarebbero state attribuite le competenze in materia di ambiente, agricoltura e tecnologia nella prospettiva di affidargli anche quelle sull’istruzione ed, infine l’ampliamento del numero dei membri della “Camera dei Popoli” e della “Camera dei Rappresentanti” – che sarebbe divenuta il solo organo legiferante, riducendo la Camera Alta ad un ruolo consultivo – per includere anche i rappresentanti degli altri gruppi etnici al di fuori dei tre costituenti.
Spirale viziosa
La proposta non è però riuscita a trovare la maggioranza dei due terzi per l’opposizione espressa non solo dai croati dell’“Hdz 1990”, una formazione nata da una scissione interna all’Hdz ed appoggiata dagli ambienti economici e dalle gerarchie cattoliche, ma anche dai musulmani del “Partito per la Bosnia–Erzegovina” (Sbih) dell’ex – Premier Haris Silajdzic, che ha respinto il pacchetto sostenendo come il nuovo assetto istituzionale avrebbe dovuto eliminare le due entità statali e creare uno Stato unitario e multietnico. Posizione ritenuta tuttavia irrealistica ed inapplicabile dalla comunità internazionale.
Ostacoli non minori ha incontrato il piano presentato nel 2007 dall’allora Alto Rappresentante Miroslav Lajcak con il quale si intendevano modificare le procedure che consentivano ai rappresentanti dei tre gruppi etnici costituenti di esercitare il loro diritto di veto all’interno del governo e delle Assemblee parlamentari. Il piano prevedeva che il Consiglio dei Ministri del governo centrale potesse tenere le sue riunioni ed approvare alcuni provvedimenti con la sola maggioranza dei membri presenti indifferentemente dalla loro nazionalità, mentre all’interno del Parlamento una legge sarebbe potuta entrare in vigore pure se la maggioranza dei voti favorevoli avesse incluso solo un terzo dei deputati delle due entità statali.
Anche se la proposta non eliminava il diritto di veto attribuito ai rappresentanti delle tre etnie ma ne razionalizzava l’uso per garantire un più efficiente livello di governabilità, ha incontrato la forte opposizione dei serbo – bosniaci e solo dopo un difficile lavoro di mediazione il progetto nel Dicembre di due anni fa è riuscito ad essere approvato. Tuttavia è opinione condivisa dagli osservatori che le misure avanzate da Lajcak costituiscano solo il primo passo per una profonda revisione delle istituzioni bosniache.
Il vincolo dell’Ue
In nessun altro Paese dell’area balcanica esiste un meccanismo di governo tanto complesso. Né in Macedonia né in Kosovo è previsto un diritto di veto per le minoranze nelle Assemblee parlamentari; il posto di Presidente è ricoperto da una singola personalità e riguardo alla composizione del governo in entrambi gli Stati non è considerato alcun sistema di “quote” nazionali.
In questo quadro, le diverse forze politiche bosniache hanno concordato di avviare una serie di negoziati per approvare le riforme che faciliteranno l’avvicinamento del Paese all’Unione europea, venendo incontro a quanto richiesto dal “Consiglio per l’Implementazione della Pace” (Pic) che nel novembre del 2008 aveva deciso di estendere il mandato dell’Alto Rappresentante fino a quando non fossero state approvate alcune misure ritenute essenziali per il funzionamento delle istituzioni.
Tra la fine dello scorso anno ed i primi mesi del 2009 veniva così fissato un nuovo round negoziale, indicato come “Prud Process”, che si proponeva di definire diverse questioni, quali il contenzioso relativo alla suddivisione delle proprietà statali e l’organizzazione del censimento che le parti convenivano di rinviare al 2014 ammettendo però l’uso della religione e della nazionalità come criteri di classificazione, un metodo questo sul quale erano sorti non pochi interrogativi in quanto l’emergere di una probabile maggioranza musulmana avrebbe potuto far riesplodere le spinte secessioniste tra i serbi ed i croati.
Era inoltre previsto un riassetto territoriale per eliminare i dieci cantoni della “Federazione della Bosnia-Erzegovina” e sostituirli con quattro regioni dotate di organi esecutivi, legislativi e giudiziari. Le trattative si sono però risolte in un insuccesso e dal mese scorso una nuova tornata di colloqui è stata organizzata a Butmir presso il comando dell’Eufor. Preparati dagli Stati Uniti e dall’Unione europea con la partecipazione delle diverse forze politiche bosniache, i negoziati hanno in agenda una serie di proposte quali l’attribuzione al primo ministro del governo centrale di una serie di prerogative fino ad ora spettanti alla Presidenza collegiale, l’abolizione dell’“entity voting system” per cui all’interno della “Camera dei Rappresentanti” del Parlamento nazionale i due terzi dei deputati delle due entità possono opporre il loro veto su qualsiasi provvedimento in discussione, nonché la modifica in senso unicamerale del legislativo che dovrebbe comporsi della sola “Camera dei Rappresentanti” con la “Camera dei Popoli” trasformata in commissione all’interno della Camera Bassa del Parlamento.
Gli osservatori sono però pessimisti sul successo dei colloqui, in quanto se da un lato il Presidente della “Republika Srpska” Milorad Dodik si oppone a qualunque riforma che limiti l’autonomia dell’entità statale serbo-bosniaca dall’altro i partiti croati e l’Sbih di Silajdzic ritengono insufficienti le proposte avanzate.
La riforma della polizia
In stallo appare poi anche la riforma della polizia. L’Unione europea aveva sempre sostenuto come l’istituzione di una forza di polizia unificata costituisse una condizione essenziale per l’adesione all’“Accordo di Stabilizzazione ed Associazione” (Saa) e lo stesso Alto Rappresentante Lajcak nel corso del suo mandato ne aveva più volte sottolineato l’inderogabilità. Tuttavia, anche se nell’aprile dello scorso anno il Parlamento aveva approvato la legge per unificare le forze di polizia, il testo stabilisce che la riforma entrerà in vigore solo un anno dopo l’adozione della nuova Costituzione bosniaca.
A quattordici anni dagli accordi di pace la prospettiva dell’integrazione appare dunque molto difficile da realizzare tanto che, secondo un sondaggio effettuato dallo “United Nations Development Program” (Undp), appena il 7% della popolazione accorda fiducia ad un gruppo etnico diverso dal proprio, una percentuale tra le più basse del mondo ed inferiore anche a quella registrata in Iraq. Per la Bosnia–Erzegovina la strada verso la normalità appare ancora lunga.
Vedi anche:
A. Cellino: Bosnia, è il tempo delle scelte