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Politica estera americana

Le sfide della politica di Obama in Medio Oriente

20 Set 2009 - Roberto Aliboni - Roberto Aliboni

Obama ha annunciato che il 23 settembre, nel suo discorso all’Assemblea Generale dell’Onu, renderà noto un piano per riavviare il processo di pace israelo-palestinese. In giugno, quando il presidente pronunciò al Cairo un discorso di grande apertura nei confronti del mondo musulmano, suscitò grande aspettative. Che negli ultimi due mesi però si sono un po’ affievolite. Da un lato, l’approccio di Washington alla questione palestinese sembra essere divenuto più prudente. Dall’altro, la nuova strategia americana verso il Medioriente, in cui rientrano anche gli sforzi per rilanciare il processo di pace, sta incontrando difficoltà.

Le convergenze parallele della nuova politica di engagement
Contrapponendosi all’unilateralismo di Bush, Obama ha adottato in Medioriente, come altrove, una strategia fondata sull’engagement. Inoltre, in una regione dove i vari conflitti sono legati fra loro, ha scelto di non affrontarli uno alla volta, ma tutti allo stesso tempo, fidando che i risultati positivi su una questione possano, proprio in forza dei legami che la legano alle altre, riflettersi positivamente su queste ultime.

Il presidente americano ha esplicitamente invocato questo parallelismo durante la visita del primo ministro israeliano Netanyahu a Washington lo scorso maggio. All’insistenza del suo ospite perché si desse precedenza assoluta alla minaccia iraniana, Obama ha risposto: “Se c’è un legame fra l’Iran e il processo di pace israelo-palestinese, personalmente credo che esso operi nell’altro senso. Nella misura in cui riusciamo a costruire la pace fra palestinesi e israeliani, penso che in effetti ciò ci rafforzi nell’ambito della comunità internazionale per affrontare la potenziale minaccia dell’Iran”.

Le parole di Obama mostrano chiaramente che parallelismo non significa che venga meno il quadro generale e che i vari conflitti siano indipendenti l’uno dall’altro. Significa che si lavora simultaneamente su tutto senza stabilire gerarchie fra i “linkages”, ma che tutto questo avviene in un quadro generale in cui i “linkages” restano operanti. Occorre quindi operare indipendentemente nei due quadri, quello iraniano e quello israelo-palestinese, ma senza dimenticare che essi rimangono, in ultima analisi, interdipendenti.

Due passi avanti e uno indietro sulla questione palestinese
Dopo il discorso del Cairo si sono avuti due sviluppi: da un lato l’approccio verso il conflitto israelo-palestinese, che era sembrato molto risoluto, ha perso mordente; dall’altro, l’evoluzione in Iran si è rivelata molto più complessa e sfavorevole di quanto forse l’amministrazione avesse anticipato. Va aggiunto che anche l’esito delle iniziative verso la Siria appare incerto. Occorre infatti non dimenticare che la strategia di normalizzazione regionale si sviluppa lungo due assi complementari: uno è quello del dialogo con l’Iran, l’altro quello dell’erosione delle sue alleanze nella regione mediante una reintegrazione della Siria (restituzione del Golan e pace con Israele).

La nuova amministrazione ha esordito nel quadrante israelo-palestinese con una richiesta insolitamente intransigente al governo israeliano di arrestare e congelare gli insediamenti dei coloni in Cisgiordania e a Gerusalemme. Indubbiamente, questa mossa ha suscitato aspettative esagerate nel mondo arabo e musulmano (e anche in Europa). È sembrato che finalmente gli Usa volessero adottare verso Israele un approccio più ”impositivo”. Così, sono simultaneamente emersi in Europa approcci simili, anche se basati su politiche diverse, come per esempio quello del discorso che Javier Solana ha tenuto alla Ditchley Foundation l’11 luglio 2009.

Naturalmente non è proprio così. Già in giugno, i colloqui condotti nella regione dall’inviato di Obama, George Mitchell, evidenziavano un progetto meno volitivo, con il più modesto obiettivo di ripristinare un clima di fiducia in vista di un rilancio del processo politico. Così Mitchell ha proposto agli stati arabi moderati di fare alcune concessioni (per es. di permettere agli aerei della compagnia israeliana El Al di sorvolare il loro territorio) in cambio di un congelamento degli insediamenti da parte di Israele. Questo ha immediatamente suscitato una levata di scudi, in particolare in Arabia Saudita: l’approccio “freeze for peace” – congelamento degli insediamenti in cambio di concessioni da parte araba – è stato rigettato. Nessuna sorpresa, in realtà, poiché gli arabi da sempre avversano qualsiasi politica basata su misure di fiducia, argomentando – non del tutto a torto – che l’esperienza fatta fin qui insegna che Israele incassa le misure e continua imperterrito nella sua politica, in particolare nella colonizzazione attraverso gli insediamenti.

Le incognite delle aperture all’Iran
Gli ulteriori colloqui di Mitchell hanno aggravato il malessere arabo: a quanto è dato sapere, gli Usa avrebbero raggiunto con Israele un compromesso che prevedrebbe un congelamento degli insediamenti temporaneo e limitato (non riguarderebbe Gerusalemme), nonché condizionato ad una valutazione israeliana sui passi successivi che gli Usa compiranno verso l’Iran. Difficilmente quest’approccio può offrire la base per un nuovo processo negoziale.

Mentre appare debole la politica verso il conflitto israelo-palestinese, incontra difficoltà la politica di “engagement” verso l’Iran e la Siria. Le elezioni iraniane hanno inferto un duro colpo alle profferte di dialogo del nuovo presidente americano, non solo e non tanto perché sono state vinte dal gruppo più conservatore, ma per le circostanze di questa vittoria: la rivolta popolare che ha fatto seguito alla proclamazione della vittoria di Ahmadinejad e la successiva dura repressione; l’ambiguità del legame fra i capi dell’opposizione perdente, Moussavi, Rafsanjani e, sullo sfondo, Khatami, e le masse di manifestanti (non è chiaro se quelli siano davvero i leader dei giovani manifestanti di Teheran e Isfahan).

È probabile che Khamenei, la guida suprema, messo di fronte all’apertura di Obama, abbia deciso che fosse troppo rischiosa accettarla e abbia quindi operato per escludere ad ogni costo non tanto l’improbabile vittoria dei riformisti, ma soprattutto quella dei conservatori pragmatici (la cui vittoria era attesa dagli Usa). Dopo tutto, il pragmatismo potrebbe portare ad aperture oggettivamente pericolose per la stabilità del regime. Represse le manifestazioni, il nuovo governo Ahmadinejad da un lato non intende negoziare sul suo programma nucleare, che è il punto che interessa gli Usa e gli altri membri del gruppo cosiddetto dei 5 + 1 (Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna più Germania); dall’altro, all’inizio di settembre, ha fatto un’offerta di colloqui su un’agenda molto generale, autopromuovendosi a grande potenza alla pari con i 5 +1. L’amministrazione ha accettato, coerentemente con la dottrina d’impegno che guida la sua politica estera. Il problema, come dimostrarono i negoziati dell’Iran con gli EU-3 (Francia, Germania e Gran Bretagna), sarà di evitare che Teheran meni il can per l’aia. Se i negoziati falliranno, si aprirà una fase difficile, sia sul fronte dell’inasprimento delle sanzioni, sia nel quadro della politica mediorientale.

Rapporti con la Siria in alto mare
Nel Levante, il riavvicinamento alla Siria non ha dato per ora dividendi. Gli Usa hanno ripreso le relazioni diplomatiche in giugno. Per ora non hanno messo mano alla ripresa della mediazione fra Siria e Israele (condotta da Ankara fino alla sospensione provocata dall’intervento israeliano a Gaza alla fine del 2008) né a dialoghi più impegnativi sul ruolo regionale di Damasco, ma si sono concentrati sul miglioramento dei rapporti della Siria con l’Iraq, vale a dire sul controllo della frontiera siriana onde evitare infiltrazioni jihadiste e baathiste verso l’Iraq. Una missione del comando delle forze americane nella regione (Centcom) si è recata a Damasco per imbastire un discorso politico e tecnico di collaborazione bilaterale sulla questione. I gravi attentati del 19 agosto a Baghdad, tuttavia, sono stati addebitati dal governo iracheno all’appoggio che la Siria continuerebbe a fornire ai baathisti espatriati. Sono seguite riunioni fra i ministri degli Esteri dei due paesi (nella solita Turchia) ma senza risultato.

Dunque, la collaborazione con la Siria sembra in alto mare. Anche le sollecitazioni americane per una mediazione siriana fra Hamas e Fatah non hanno avuto seguito finora. Secondo alcuni analisti, inoltre, se Saad Hariri non è ancora riuscito a costituire un governo in Libano, dopo tre mesi di trattative, è anche perché la Siria, dietro le quinte, le ha sabotate.

Il discorso all’Onu, un’occasione da non perdere
Obama ha teso la mano all’inizio del suo mandato, ma per ora i pugni dei potenziali interlocutori restano chiusi. Ciò non pregiudica ancora la strategia di dialogo ed “engagement” che Obama ha intrapreso. È ovvio che va dato tempo al tempo. Questa strategia ha comunque il merito di favorire la coesione tra gli alleati transatlantici, che sarà importante quando verranno i momenti difficili.

Date le difficoltà sul versante iraniano, è essenziale che Obama ridia vigore e coerenza al suo approccio verso il conflitto israelo-palestinese, andando oltre i modesti compromessi che sembrano annunciarsi e su cui difficilmente può essere costruito un nuovo processo di pace. Se all’Onu il presidente americano annunciasse un progetto inadeguato, rischierebbe di esserne danneggiata non solo la sua politica sul conflitto israelo-palestinese, ma anche la sua strategia complessiva in Medioriente.

Roberto Aliboni è vicepresidente dello IAI

Vedi anche:

Testo originale della dichiarazione del presidente Obama:
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R. Aliboni: Un ombrello nucleare Usa sul Golfo?

R. Aliboni: La tela di Obama in Medioriente

S. Silvestri: Obama e il ruolo dell’Ue in Medio Oriente

B. Voltolini: Prove di dialogo con la Siria