La media potenza berlusconiana
Non ci facciamo illusioni. Lo scorso vertice del G8 è stato gestito dalla nostra diplomazia al meglio, ma con un risultato doloroso e scontato: abbiamo subito di fatto un ulteriore declassamento perché il formato G20 è considerato quello più interessante dagli attori che non hanno problemi ad affrontare insiemi allargati. Il G14, cavallo di battaglia intermedio della Farnesina, è un formato di riserva e/o di transizione, mentre il G8 è un foro di pre-coordinamento i cui impegni non sono vincolanti quando si arriva al G20.
Un nuovo quadro concettuale
Vittime di una congiura internazionale che punta a sminuire l’Italia nella scia di grandi paesi, afflitti da complessi di superiorità? No. Quello cui assistiamo è piuttosto l’effetto della trasformazione radicale del sistema internazionale che ha spazzato i riferimenti consolidati di mezzo secolo di politica estera e la conseguenza di un letargo della classe dirigente nazionale, dovuto anche al crescente provincialismo dei suoi governi di legislatura.
Il sistema internazionale, per quel che vale il concetto in sé, nel giro di 20 anni ha perso:
– La bipolarità Urss-Usa che sembrava essere l’architrave della sicurezza globale;
– La centralità dell’Onu come efficace istanza d’istruttoria internazionale delle questioni di sicurezza mondiali e come mandatario legittimante di operazioni di polizia internazionale;
– La dimensione politica della Nato con l’energico svuotamento del significato dell’art. V del Trattato di Washington e del ruolo del North Atlantic Council;
– L’egemonia incontestabile degli Usa nel complesso della sua presenza internazionale a seguito delle sconfitte nella guerra alla droga e nella terza guerra del Golfo (aggressione all’Iraq, 2003);
– La coesione politica dell’Occidente sostituita da un mutevole gioco a geometrie variabili;
– E, doloroso a dirsi, la spinta all’integrazione politica europea intorno alla realtà di uno stato nazionale sempre più in crisi, mascherata da governi nazionali sempre più simili nel comportamento ai magnati della Dieta polacca nel XVIII secolo.
Dunque i vecchi parametri di misurazione di grande e piccolo sono saltati e lo tsunami della crisi finanziaria ha molto ridimensionato tutti i maggiori attori mondiali. Perché stupirsi, davanti a questo rimescolamento, che il concetto stesso di media potenza o di ultimo del G8 sia entrato in crisi?
Prestigio e potenza
Ciò non significa che i governi e le opinioni pubbliche non si sforzino di stilare delle classifiche relative, in cui l’autostima e la percezione collettiva hanno un ruolo, ma guai a scambiare un effimero prestigio per le radici della propria potenza. L’Italia ha compiuto uno sforzo abbastanza costante per mezzo secolo nel proporsi come un attore rilevante nell’Europa e nel mondo, colmando le sue debolezze strutturali con una crescente assunzione di responsabilità complessiva a livello politico, diplomatico, militare e monetario. Questo sforzo è stato frenato in modo crescente dal peso del debito pubblico e dall’aumento della capacità d’interdizione di costellazioni d’interesse legali, grigie e mafiose.
In tale contesto il secondo governo di legislatura Berlusconi conferma e rafforza pienamente le intuizioni e gl’indirizzi del primo:
a) sostanziale disinteresse per un sistema internazionale multilaterale regolato da norme stringenti e cogenti (il legal standard è un’eccezione che speriamo faccia regola e che va confermata nel tempo);
b) scarso interesse per l’integrazione europea, chiaramente dimostrato durante la presidenza di turno del 2003, quando si contribuì ad annacquare il sistema di voto a doppia maggioranza, già precedentemente concordato a livello europeo;
c) personalizzazione delle relazioni internazionali con un’evidente priorità per quelle che influenzano direttamente l’andamento del consenso interno;
d) preferenza spiccata per raggruppamenti trasversali instabili e di breve periodo.
Su queste scelte ideologiche ed istintive, travestite dal pragmatismo politico del “portare a casa”, è facile immaginare come si possa soggiacere a tre tentazioni tutt’altro che in contrasto fra loro: la ricerca del colpo di prestigio, il tentativo di porsi come mediatore privilegiato e la rassegnazione all’essere media potenza.
Radici antiche
Ognuna di queste tentazioni ha visibili precedenti nella storia patria. La mediazione privilegiata affonda le sue radici nell’ossessione di essere ago della bilancia di vari stati rinascimentali nella politica, ignorando la brutale realtà degli stati nazionali oltralpe, sino a quando Carlo VIII fece strame con le sue artiglierie di tutte le sofisticate alchimie della Penisola.
L’autorappresentazione come media potenza percorre molte epoche della monarchia sabauda con la differenza che dal ’600 all’800 del secolo scorso il Piemonte dovette spesso combattere per la sua nuda sopravvivenza e stabilità, anche dopo la creazione del Regno d’Italia come avvenne con la decennale cosiddetta guerra al brigantaggio meridionale.
L’idea di puntare al risultato d’effetto e dunque di prestigio è vecchia quanto i dicasteri di Depretis (1889) e di Crispi (1896) e fu ripresa con ancor più convinzione dal regime Mussolini.
Nel presente la tentazione di qualificarsi come media potenza è la base per poter operare con mani libere nel proporre mediazioni più o meno reali alla ricerca di un effetto di prestigio. Tutto molto mediaticamente spendibile, ma che non aiuta a consolidare i risultati del mezzo secolo di sforzi seguiti alla sconfitta della seconda guerra mondiale.
Certamente il vecchio multipolarismo, figlio di Yalta e Potsdam, è morto, così come è terminata la stagione del tentato unipolarismo (consociativo sotto George Herbert Bush e William Jefferson Clinton; coercitivo sotto George Walker Bush) e il prossimo quinquennio vedrà lo sviluppo di un multipolarità basata su equilibri fluidi fra attori instabili.
Questo però non vuol dire che l’opportunismo da solo sia la ricetta per la sopravvivenza e per il successo: vuol dire invece che solo gli attori (non importa se pubblici o privati) con i fondamentali a posto riusciranno ad imporsi sulla scena ed a influenzare un ordine mondiale molto più condiviso che in passato.
La proposta di creare un’unità di conto condivisa (il ritorno del Bancor di John Maynard Keynes a Pechino) significa che c’è la tendenza a passare da un ordine internazionale gerarchico ad un sistema internazionale più distribuito fra gli attori più rilevanti. In questo gruppo conta esserci e, vista la presente crisi dell’Europa, non basta pensare che ci finiremo per l’inerzia di trascinamento di Bruxelles.
I fondamentali sono presto detti: conti pubblici in attivo; solidità interna ed efficacia del paese e della sua struttura pubblica; certezza delle regole; un’economia ed una società agili, innovative e non gravate da mafie e consorterie corporative; demografia in crescita e Women strategics (W-strats, la valorizzazione della componente femminile nella grande strategia della collettività).
Oggi può sembrare che sia un programma costoso, ma costa molto di più riempirsi di debiti clientelari, grazie ad un fisco spuntato, per continuare a declinare come media potenza, piuttosto che investire nel futuro dell’Italia.
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Vedi anche:
S. Silvestri: Italia o Italietta, al vertice o media potenza?
V.E. Parsi: Come evitare un destino da Italietta
S. Fagiolo: Identità nazionale e politica estera: un nesso indissolubile
F. Salleo: Il pericoloso paradosso del nazionalismo
R. Marchetti: Una rinnovata politica estera liberal-democratica