L’inarrestabile ascesa del multipolarismo economico
Il G8 dell’Aquila potrebbe passare alla storia come l’ultimo vertice di questo tipo tra gli Otto grandi. E sarebbe auspicabile se nel mentre ci si riuscisse ad accordare su una nuova composizione di questi summit, che includa un certo numero di paesi emergenti e sia così in grado di meglio rappresentare i nuovi equilibri di potere che si sono affermati a livello mondiale. Il timore, tuttavia, è che il G8 venga mantenuto in vita insieme a tanti altri G, realizzando una cacofonia di comunicati e decisioni del tutto inadeguata a fronteggiare le grandi sfide sollevate dalla crisi e dall’interdipendenza globale.
Il perché il G7/G8 non sia più rappresentativo ed efficace è da rinvenire nella massiccia redistribuzione di potere economico che si è verificata a livello mondiale negli ultimi 10-15 anni in favore dei paesi emergenti. Se nel 2000 il gruppo dei paesi Bric (Brasile, Russia, India, Cina) arrivava a coprire meno dell’8 % della produzione mondiale, la loro quota è salita al 14% alla fine dello scorso anno. Secondo molte previsioni entro il 2013 sarà prossima al 20%. La crisi globale in corso molto probabilmente rafforzerà e accelererà questa tendenza dell’economia mondiale verso un assetto multipolare, imperniato su tre aree dominanti, Europa, Nord America e Asia del Pacifico, e le cui sorti dipenderanno sempre di più da aree e paesi che non fanno parte del gruppo tradizionale delle economie più sviluppate. Ciò avverrà per tre ragioni di fondo, in qualche modo correlate. La prima è che i paesi emergenti guidati dalla Cina e dall’India, per quanto fortemente penalizzati dalla crisi, stanno realizzando performance nel loro complesso molto migliori di quelle dei paesi più industrializzati. La seconda è che gli Stati Uniti e l’Europa usciranno dalla crisi comunque indeboliti, sia come attori economici sia come depositari dell’ortodossia culturale e politica. La terza, infine, è che molti dei maggiori gruppi finanziari occidentali – quelli che non sono stati di fatto nazionalizzati – come anche molte grandi imprese industriali dipenderanno molto più del passato dai capitali della Cina e dei paesi produttori del Golfo. Il declino del G7/G8 In questo scenario anche il G7/G8, che aveva giocato in passato e con discreto successo un ruolo assai rilevante nell’ambito della struttura di governo mondiale, ha perso inesorabilmente capacità e efficacia di intervento. I vertici del G8 si sono così trasformati, anno dopo anno, in grandi eventi mediatici, a carattere globale, con migliaia di partecipanti, con i media di tutto il mondo puntati, per qualche giorno, sul paese e sulla località dell’incontro. Questa crescente spettacolarizzazione dell’evento, tuttavia, non è certo stata accompagnata da contenuti ed esiti altrettanto rilevanti. È semmai vero il contrario. Gli incontri, ed i comunicati conclusivi finali offrivano una lunga elencazione di ‘temi’ e la presentazione di svariati proclami ed impegni da parte dell’insieme dei governi partecipanti, che venivano poi per lo più disattesi. L’incerto futuro del G20 Un’affermazione quest’ultima che appare in realtà piuttosto avventata. E comunque prematura. Non vanno trascurate in effetti le difficoltà e i problemi non di poco conto che affliggono anche una struttura come il G20. È innanzi tutto un gruppo assai più ingombrante del G7/G8. Venti paesi, o meglio ventitré o ventiquattro come si è verificato nell’ultimo summit di Londra, rappresentano indubbiamente un numero troppo elevato di partecipanti, e comunque tale da non consentire al G20 di rappresentare un meccanismo affidabile per mettere in atto, ad esempio, interventi tempestivi e coordinati a livello internazionale, come talvolta richiede lo scoppio di una crisi e come è stato necessario fare diverse volte in passato. Questi dubbi hanno portato a svariate proposte su come rimodellare la stessa composizione del G20. Alcune spingono in direzione di un raggruppamento più ristretto di paesi. Una ipotesi ad esempio è la formazione di un più agile G4 che includa Stati Uniti, l’Unione Europea come attore unitario, il Giappone e la Cina con la variante di un G5, esteso anche all’India. In questo caso la partecipazione più ristretta garantirebbe un processo di consultazione e decisione più efficace, che non si dovrebbe limitare a diffondere solo eleganti e generici comunicati ufficiali alla fine dei summit. Alla ricerca di un nuovo ‘steering committee’ dell’economia mondiale Da un lato gli Stati Uniti e l’Europa sono a dir poco riluttanti a cedere l’ampia rappresentanza di cui godono nelle istituzioni finanziarie internazionali fondate a Bretton Woods, quali il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale. Dall’altro le potenze emergenti, in particolare la Cina e l’India, sembrano pronte a gestire un ruolo più influente a livello internazionale ma molto meno disposte ad assumersi, per simmetria, il maggiore peso di nuove responsabilità globali. Il risultato è che la governance economica globale rischia nella fase attuale di rimanere fortemente frammentata tra il G8, il G20 e gli altri G, con una molteplicità di organismi e strumenti privi tuttavia di meccanismi formali di coordinamento che solo istituzioni internazionali profondamente rinnovate nella loro rappresentanza e missione sono in grado di offrire. Con la conseguenza da un lato di far proliferare, come nel campo delle relazioni commerciali, una miriade di accordi preferenziali e bilaterali; dall’altro di creare un elevatissimo numero di gruppi ad hoc su specifici temi. Va da sé che tutto ciò ostacolerebbe un processo di stabilizzazione a medio termine del nuovo sistema economico multipolare né favorirebbe il rafforzamento di interventi coordinati a livello internazionale che sono oggi necessari per fronteggiare gli effetti drammatici della crisi globale in atto. Certo c’è ancora tempo per contrastare e modificare tali tendenze. L’auspicio è che se ne faccia buon uso, magari a partire dal summit dell’Aquila. Vedi anche: R. Alcaro: L’incerto passaggio di consegne tra G8 e G20 B. Voltolini: Quale ruolo per il G2? |