Elezione del Presidente della Commissione, referendum irlandese sul trattato di Lisbona, risposta alla crisi finanziaria, conferenza di Copenaghen sul clima. Sono i quattro banchi di prova su cui nei prossimi mesi si misureranno la coesione interna e la capacità di azione dell’Unione Europea.
L’attuale presidenza di turno svedese dell’Ue è attrezzata alla prova molto meglio dei predecessori cechi: il buon risultato registrato alle elezioni europee dal centro-destra del premier Fredrik Reinfeldt (le prossime elezioni politiche si terranno in Svezia nel settembre 2010) la pone al riparo dai rischi di instabilità. E il buon livello della compagine di governo, a partire dal ministro degli esteri Carl Bildt, di cui si parla come un possibile candidato per il posto di Alto rappresentante della politica estera dell’Ue, offre buone garanzie sulla cabina di regia. Ma le risposte che l’Ue darà alle sfide dei prossimi mesi dipenderanno solo in misura limitata dalla presidenza di turno.
Le spine di Barroso
Fallito il tentativo di Barroso di farsi rieleggere alla guida della Commissione già nella prima riunione del Parlamento europeo, è molto difficile che il nodo del nuovo presidente venga sciolto prima delle elezioni politiche in Germania (27 settembre) e, soprattutto, del referendum irlandese (2 ottobre). Questo ritardo potrebbe frenare l’azione dell’Unione in un momento in cui è invece richiesta una più decisa risposta comune alla crisi economica, i cui effetti sociali sono destinati ad aggravarsi in autunno.
Se popolari e conservatori europei (vincitori delle elezioni di giugno) faticano a mettere insieme la maggioranza necessaria ad eleggere Barroso, i socialisti sono divisi al loro interno tra spagnoli, portoghesi e inglesi favorevoli a quest’ultimo e la maggioranza delle altre delegazioni, contrarie. Particolarmente delicata è la posizione dei socialdemocratici tedeschi, molto influenti nel gruppo socialista – lo presiede un loro esponente di punta, Martin Schulz: se accettassero proprio ora di accorrere in soccorso di Barroso rischierebbero di pagare un prezzo salato nelle già difficili elezioni nazionali di fine settembre.
Per queste ragioni, nonostante la grande incertezza che regna nel campo apertamente o tendenzialmente anti-Barroso (oltre ai socialisti, anche verdi e liberaldemocratici) e l’assenza di una candidatura alternativa unitaria, è molto probabile che i negoziati sulla nuova Commissione vadano avanti fino ad autunno inoltrato.
Barlumi di speranza a Dublino
Qualche refolo di speranza per la ratifica del Trattato di Lisbona spira dalle verdi scogliere irlandesi dopo gli opprimenti vincoli imposti dalla Corte costituzionale tedesca. A Dublino, infatti, alla crescente preoccupazione per la situazione economica ha fatto riscontro la disfatta, nelle ultime elezioni, del fronte antieuropeista. Il nuovo partito Libertas del paladino del ‘no a Lisbona’, Declan Ganley, è stato sconfitto insieme agli indipendentisti dello storico Sinn Fein. È stata una piccola riscossa delle forze ‘pro-Lisbona’. Queste ultime hanno già dato avvio ad una campagna referendaria più efficace di quella dello scorso anno, che sta facendo leva sulle garanzie alla sovranità irlandese concesse – o ribadite – dall’Ue (su diritto di famiglia, difesa e politica fiscale). Al ‘si’ irlandese farebbero poi seguito le firme ancora mancanti dei presidenti di Polonia e Repubblica Ceca, i cui parlamenti hanno da tempo ratificato il trattato. In caso di vittoria dei no, invece, l’Unione dovrebbe continuare ad operare sulla base delle regole ormai del tutto inadeguate del Trattato di Nizza, con prospettive quanto mai fosche sul futuro dell’integrazione.
Le misure anticrisi
Per restituire un minimo di efficacia alla risposta europea alla crisi, la Presidenza svedese sta cercando di applicare il pacchetto di regole e strumenti di sorveglianza dei mercati finanziari approvate dal Consiglio europeo di giugno. Come sottolineato da Carl Bildt in un recente incontro a Venezia del Consiglio Italia-Stati Uniti, un tempestivo passo avanti in questo campo consentirebbe all’Unione di presentarsi con migliori credenziali al vertice del G20 di Pittsburgh di fine settembre. Dove cinesi ed americani cercheranno probabilmente di imprimere un’accelerazione al nuovo quadro di regole globali dell’economia. È dalla Gran Bretagna, che non fa parte dell’euro, che giungono tuttavia le maggiori resistenze al rafforzamento dei poteri di controllo della Banca Centrale Europea. A quest’ultima dovrebbe infatti far capo, secondo le intenzioni in primis di francesi e tedeschi, il nuovo organismo di supervisione su hedge funds e private equity firms. D’altra parte neanche la Svezia è nell’area euro e ciò potrebbe rafforzarne la capacità di mediazione verso Londra, con cui stanno emergendo interessanti margini di convergenza.
Per far fronte al forte aumento della disoccupazione, l’Unione sembra intenzionata ad adottare misure che facilitino la mobilità interna al mercato del lavoro europeo e l’accesso al credito per le piccole e medie imprese. Crescita sostenibile e rilancio dello stato sociale sono peraltro gli ingredienti chiave che gli svedesi stanno ponendo alla base della nuova ‘strategia di Lisbona’ per l’occupazione, il cui cantiere è già aperto, ma che vedrà la luce solo nella prossima primavera, durante la presidenza spagnola (con esiti migliori, si spera, della precedente).
La sfida di Copenaghen
Ma è forse sulla sfida ambientale che la presidenza svedese giocherà la sua partita più importante. Emblema di un modello di sviluppo che coniuga crescita e riduzione delle emissioni, la Svezia vuole fare della conferenza sul clima di dicembre, a Copenaghen, l’occasione per rilanciare la leadership europea in campo ambientale. Impresa tutt’altro che facile. La crisi economica ha determinato un crollo del 42% degli investimenti in impianti di energia rinnovabile a livello mondiale, invertendo bruscamente il trend di crescita degli ultimi anni. Paradossalmente, la più alta riduzione della domanda mondiale di energia elettrica dai tempi della seconda guerra (3,5% nel 2009), da cui dipende il 70% delle emissioni di biossido di carbonio, favorirà certamente l’uso di fonti più inquinanti rispetto a quelle più sostenibili (e costose).
In questo contesto il successo di Copenaghen dipenderà da tre variabili: un nuovo accordo tra paesi sviluppati su nuovi limiti alle emissioni del biossido di carbonio; un patto con le economie emergenti su un tetto all’aumento di emissioni, come prefigurato nel recente vertice di Washington tra Usa e Cina; un accordo tra paesi sviluppati e paesi poveri (che contribuiscono non poco alle emissioni e subiranno le conseguenze più dure del riscaldamento climatico) sui trasferimenti tecnologici e il sostegno finanziario.
Le difficoltà che sta incontrando al Senato americano l’American Clean Energy and Security Act (che assume molti dei parametri fissati dall’Unione europea per attuare le politiche del protocollo di Kyoto) sollevano non pochi dubbi sul ruolo che gli americani potranno svolgere a Copenhagen. La Ue, da parte sua, dovrà fare i conti con la tensione tra la determinazione ambientalista dei nordici, inclusi inglesi, olandesi – con il possibile sostegno di tedeschi e francesi – e le resistenze dei paesi meridionali e orientali, le cui imprese faticano sempre di più a rispettare anche gli standard esistenti. Uno dei compiti chiave degli svedesi sarà la ricerca di un nuovo accordo sul prezzo del carbone, che è ancora troppo basso per rendere vantaggiosi gli investimenti in tecnologie verdi. Senza questi investimenti, infatti, gli europei non riusciranno a ridurre in modo stabile le emissioni inquinanti.
Hic Rhodus, hic salta
Dall’esito di queste sfide emergerà se e quanto l’Unione europea è in grado di far sentire la sua voce sui principali temi dell’agenda internazionale. E, quindi, anche di svolgere un ruolo di peso nella ridefinizione degli assetti mondiali. Spinte contrapposte si agitano nel ventre profondo del vecchio continente e il rischio è che l’unità politica dell’Ue non regga agli effetti di più lungo termine della crisi. Se l’Europa non riuscisse a ritrovare una maggiore coesione, una sua progressiva marginalizzazione sulla scena mondiale sarebbe inevitabile. Tuttavia, le risposte puramente nazionali alla crisi si stanno rivelando insieme inefficaci e pericolose. La presa d’atto di questa crescente impotenza degli attori nazionali potrebbe anche determinare un rilancio del processo d’integrazione, almeno in alcuni settori strategici. Avranno i paesi europei la lungimiranza e il coraggio per intraprendere questa strada? Lo si vedrà nei prossimi mesi.
Vedi anche:
G. Bonvicini: Barroso rimandato a settembre
T. Padoa-Schioppa: Il disegno incompiuto dell’Europa