La visita di Netanyahu in Europa e la nuova politica estera di Israele
In politica estera il secondo governo di Benjamin Netanyahu deve misurarsi con un groviglio di problemi, vecchi e nuovi, che si sono accumulati in 40 anni di occupazione e in 15 anni di un processo di pace sine die, di difficili accordi con alcuni vicini e di ostilità apparentemente irriducibili con altri. Deve inoltre affrontare un’amministrazione americana che ha adottato un approccio diverso ai problemi mediorientali, nei toni e nel metodo, anche se non necessariamente nei contenuti. In un siffatto contesto Netanyahu non può che muoversi con estrema prudenza.
La sua ampia coalizione di governo è assai fragile e troppo spostata a destra, anche se include i laburisti. Secondo i sondaggi, l’opinione pubblica di Israele è per la fine dell’occupazione e la creazione di uno stato palestinese, ma non è in grado di esprimere maggioranze in grado di perseguire questi obiettivi. Così si perpetua lo status quo, mentre continua a rafforzarsi la presenza ebraica in Cisgiordania.
Il complesso rapporto con gli Usa
Il discorso di Obama al Cairo, la sua nuova visione dei problemi del Medioriente, le sorprendenti elezioni in Libano e in Iran, la normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Stati Uniti e Siria, costringono Israele a riconsiderare la lista degli amici, e forse anche quella dei nemici.
I rapporti con gli Stati Uniti sono difficili. La quasi automatica intesa degli anni passati è alle spalle, così come il doppio binario degli anni di Bush, fatto di documenti, road map, posizioni comuni, ma anche di intese non ufficiali e di un’accondiscendenza da parte americana che lasciava a Israele ampio spazio di manovra. E’ anche cambiato, e in modo probabilmente irreversibile, l’atteggiamento della comunità ebraica americana. Da anni quietamente critica del regime di occupazione, ma pubblicamente solidale, ora appoggia il Presidente Obama nella sua volontà di veder nascere uno stato palestinese, sia pure con qualche distinguo, che non è però sufficiente a rassicurare il governo israeliano. A condurre questa politica sono dichiarati amici di Israele, come il Segretario di Stato Hillary Clinton e il capo di gabinetto della Casa Bianca, Rahm Emanuel, assieme ad altri fidati consiglieri che non possono essere accusati di ostilità o freddezza verso Tel Aviv.
Netanyahu sta cercando in tutti i modi di arginare la richiesta americana di dare attuazione agli impegni più volte ribaditi in passato da Israele: migliori condizioni per i palestinesi, creazione di due stati e ripresa di un negoziato vero, che possa finalmente giungere a una conclusione.
Il nodo degli insediamenti
Inoltre, Obama sta mettendo Netanyahu alla prova su una questione chiara, misurabile, e che è determinante: il blocco della crescita degli insediamenti. Washington chiede un blocco assoluto senza discussioni su cosa sia crescita più o meno ‘naturale’, anche perché i coefficienti “naturali” si sono rivelati alquanto anomali.
In fondo a questo percorso ci sarebbe lo smantellamento di gran parte, se non di tutti, gli insediamenti, senza distinzioni tra legali o illegali, e questo è un prezzo altissimo, non solo in termini territoriali, ma per l’essenza stessa dello Stato e del sionismo, che dovrebbe reinventarsi, in un processo politico che rischia di radicalizzare e destabilizzare il paese.
Netanyahu insiste infatti sulla richiesta di un riconoscimento da parte palestinese di Israele come stato ebraico perché vede i gravi pericoli insiti in un ritiro dalla Cisgiordania. Sta quindi a sua volta cercando di mettere alla prova l’amministrazione Obama, per capire fino a che punto arriveranno le pressioni, se può contenerle o eluderle.
Alla riluttanza di Israele si accompagna la mancanza di una controparte palestinese capace di negoziare e attuare un eventuale accordo. La seconda intifada e le elezioni palestinesi del 2005 hanno indebolito Fatah e rafforzato Hamas e, soprattutto, spaccato i palestinesi. I tempi per la definizione di un’unica leadership palestinese in grado di negoziare davvero sono lunghi: un nuovo processo politico potrà verosimilmente sviluppasi solo dopo le elezioni presidenziali e parlamentari previste per il gennaio 2010.
Nel frattempo, per evitare l’isolamento, Netanyahu è all’affannosa ricerca di appoggi sulla scena internazionale. Con un ministro degli esteri poco presentabile come l’oltranzista Avigdor Lieberman, deve curare personalmente le questioni più cruciali e ha dovuto inviare negli Stati Uniti il ministro della Difesa, il laburista Ehud Barak, lasciando a casa Lieberman.
Le frastagliate alleanze europee
Sta soprattutto cercando una nuova politica verso l’Europa, finora considerata troppo dura con Israele e troppo morbida con i palestinesi. Israele in verità non ha molte alternative, salvo forse la Russia, con cui esiste un’ intesa sotterranea, dai connotati poco chiari, che proprio Lieberman, che ha raccolto gran parte dei voti degli immigrati russi, sta cercando di coltivare. L’Unione Europea fa parte anche del Quartetto che, con Stati Uniti, Russia, e Onu, ha il compito di facilitare un trattato di pace israelo-palestinese. Il Quartetto ha però appena riaffermato, con vigore, le richiesta di fermare tutti gli insediamenti: non è questa, dunque, una via praticabile.
L’Europa ha tuttavia molte anime e voci, con differenze sensibili verso Israele. E’ qui che il premier israeliano sta cercando margini di manovra e appigli politici. Paesi come la Gran Bretagna o la Grecia sono quasi ostili, la Spagna o vecchi amici come Olanda e Danimarca esprimono critiche che Israele accoglie con insofferenza. La Svezia, appena diventata presidente dell’Unione, non è considerata tra i paesi più favorevoli a Israele.
Netanyahu guarda quindi altrove, soprattutto a Francia, Germania, Italia, Polonia, Repubblica Ceca. La Germania è un’amica leale, attenta ad evitare ogni possibile incidente che evochi, anche per sbaglio, il terribile passato. L’Italia, pur con la differenza di accenti registrata durante il governo Prodi, è tra i migliori amici di Israele, insieme alla Repubblica Ceca e alla Polonia. L’intesa è salda, sia pure con schermaglie sui molteplici affari che l’Italia coltiva in Medioriente, ovvero con tutti i nemici di Israele, Iran in primis, come Netanyahu non ha mancato di ricordare a Berlusconi durante la sua recente visita a Roma. Anche Berlusconi ha ribadito l’esigenza che si fermi l’espansione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Ma l’amicizia tra i due paesi si è comunque rinsaldata: Netanyahu ha invitato a Berlusconi a visitare Israele e parlare alla Knesset, come negli ultimi anni hanno fatto il cancelliere tedesco Angela Merkel, il presidente tedesco Horst Koehler, il presidente del Parlamento Europeo Hans-Gert Poettering, oltre che, naturalmente, l’ex presidente americano George Bush. Non un onore esclusivo, quindi, ma un gesto in ogni caso significativo.
La visita di Netanyahu in Europa si è chiusa a Parigi. Con la Francia di Sarkozy ci sono rinnovati interessi comuni, come il rafforzamento della comunità cristiana in Libano in funzione di argine contro Hezbollah e la Siria. Sarkozy tende a seguire una linea filo-americana, e questo può essere utile a Israele. Ma soprattutto, la Francia è recentemente rientrata nel comando integrato della Nato. Se, per ipotesi – per quanto remota – si arrivasse ad uno stato palestinese, smilitarizzato o meno, con forme di sicurezza garantita per le due parti, la Francia potrebbe rivelarsi un alleato prezioso da coltivare, per il ruolo che può svolgere sia nella Nato che nell’Ue. Francia e Israele hanno inoltre un passato di collaborazione militare di tutto rilievo: basti pensare al reattore nucleare di Dimona costruito grazie alla tecnologia francese, agli aerei Mirage e Mystère che vinsero la guerra del 1967 e alle corvette acquistate e poi “rubate” a Cherbourg per aggirare il blocco delle forniture voluto da de Gaulle. Con trascorsi del genere, è plausibile che le conversazioni parigine di Netanyahu abbiano avuto un contenuto più intrigante dell’incontro con Berlusconi, e forse anche un giro di orizzonte più ampio.
L’ombra degli Ayatollah
L’Iran rimane sempre argomento centrale e le tumultuose elezioni confondono ancora di più il quadro. La presidenza Ahmadinejad rimarrà tenacemente ostile a Israele, ma la sua assai dubbia riconferma elettorale cambia comunque l’equazione. Il paese è spaccato, autorità religiose comprese, e la richiesta di democrazia potrebbe prima o poi far breccia. Per l’Iran l’atomica è una questione di dignità nazionale e di difesa, ma la prospettiva di un confronto militare con Israele – già assai poco probabile – diventa ancora più remota in una crisi interna che si prospetta lunga e travagliata. Nè Israele potrà prospettare di un attacco preventivo all’Iran senza suscitare un allarme immediato in occidente, dove è forte il timore che un’escalation delle tensioni possa rafforzare ancora di più l’ala dura della leadership iraniana e rendere così ancora più instabile l’area del Golfo.
Un quadro complesso, dunque, che spinge Netanyahu verso una tattica attendista, nella convinzione che il tempo lavori per Israele. Il premier israeliano potrebbe offrire al massimo il blocco degli insediamenti per non più di sei mesi, come Ehud Barak ha appena detto agli americani. Sei mesi in Medioriente possono essere lunghi, per capire dove vanno Iran e Siria, magari anche per arrivare alle elezioni palestinesi senza rafforzare Hamas, che però viene sempre più considerato interlocutore possibile – o necessario – sia dagli americani che dagli europei.
Se per Netanyahu si prospetta un’estate molto impegnativa sia sul piano diplomatico che per le crescenti difficoltà interne, per l’Europa, nelle sue varie componenti, potrebbero prospettarsi ruoli e responsabilità maggiori nei confronti di un Medioriente più vicino che mai.