IAI
Sicurezza marittima

I Paesi arabi del Mar Rosso contro la pirateria

10 Lug 2009 - Fabio Caffio - Fabio Caffio
Il 30 giugno 2009, nel corso di una riunione a Riyad, i Paesi arabi rivieraschi del Mar Rosso, Golfo di Aqaba compreso – Arabia Saudita, Egitto, Gibuti, Giordania, Sudan e Yemen – con l’aggiunta degli altri Stati arabi della regione mediorientale aderenti al Gulf Cooperation Council – Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar – hanno deciso di costituire una forza navale per il contrasto alla pirateria.

La formazione denominata “Forza del dovere marittimo arabo” sarà impiegata nel Mar Rosso e nelle adiacenti aree del Golfo di Aden per contrastare le minacce poste dalla pirateria ai traffici facenti capo al Mediterraneo attraverso le vie marittime del Canale di Suez, del Mar Rosso e dello Stretto di Ba bel Mandeb. Ad essa non partecipano ovviamente i Paesi non arabi del Mar Rosso e cioè l’Eritrea ed Israele (che si affaccia sul Golfo di Aqaba con il porto di Elat). L’iniziativa si propone anche di evitare che il Mar Rosso sia incluso in qualsiasi accordo, sia pur diretto contro la pirateria, tra Stati esterni alla regione, tenendo conto del fatto che “la difesa della cruciale via di navigazione del Mar Rosso è responsabilità primaria degli stati litoranei”. La costituenda forza navale, che dovrebbe operare per un anno sotto la guida dell’Arabia Saudita, coordinerà comunque la sua attività con le altre formazioni navali presenti al largo del Corno d’Africa, quelle della Nato, dell’Unione Europea, della coalition of the willing aggregatasi attorno ai Ctf 150 e 151, e di singoli paesi come Russia, Cina, Giappone, Corea del Sud e Singapore.

La discesa in campo della Lega Araba
Le prime avvisaglie del formarsi di una posizione comune tra i paesi arabi per la protezione dei propri interessi marittimi si erano avute durante il vertice della Lega Araba tenutosi al Cairo il 24 novembre 2008, nel corso del quale l’Egitto aveva manifestato le sue preoccupazioni per il fatto che la pirateria stava causando un consistente decremento degli introiti derivanti dai diritti di transito nel Canale di Suez (al terzo posto tra le entrate egiziane).

Qualche giorno prima si era verificato l’episodio della cattura della superpetroliera saudita da 300.000 tonnellate, con a bordo due milioni di barili di greggio a più di 400 miglia dal Kenya. L’evento, che ben difficilmente poteva essere imputato a semplici predoni del mare, aveva evidenziato l’esistenza di una pirateria somala con capacità per così dire militari (la petroliera era stata condotta per centinaia di miglia sino alla “tortuga” di Eyl, per poi essere rilasciata dietro pagamento di riscatto) e la conseguente necessità di adottare contromisure adeguate.

Di fronte ai rischi crescenti, alcuni armatori avevano perciò deciso di seguire nuove rotte. In sostanza una consistente aliquota di traffico mercantile è stata dirottata sul finire del 2008 dalla tradizionale rotta di Suez a quella di Buona Speranza. I maggiori costi del viaggio (minimo 1 settimana in più) sono stati in parte compensati, oltre che dal risparmio del costo di polizze antipirateria, dal mancato pagamento dei diritti di transito nel Canale.

Nell’ambito della Lega Araba le motivazioni per un’azione comune non sono tuttavia limitate alla protezione degli interessi economici dell’Egitto e dei paesi produttori di petrolio comunque danneggiati dai rischi di trasporto via mare. Rilevanti sono anche le ragioni di ordine politico. Eloquente la tesi espressa da rappresentanti arabi: “È preoccupante l’intensa presenza multinazionale nello sbocco meridionale del Mar Rosso. Essa può infatti costituire una minaccia alla “sicurezza nazionale araba” e condurre ad una “internazionalizzazione” del Mar Rosso”.

Il regime legale del Mar Rosso
Ma esiste realmente un pericolo per i Paesi rivieraschi del Mar Rosso che questo possa essere “internazionalizzato” per effetto della presenza di forze navali straniere? E non è esso già “internazionalizzato” nella misura in cui è aperto al libero transito di tutti gli Stati a condizione che rispettino il regime legale di transito previsto dalla Convenzione del Diritto del Mare del 1982 per tutti gli spazi di acque territoriali, di acque internazionali e per gli stretti “internazionali” come Bab el Mandeb? O è forse il Mar Rosso un mare chiuso come il Mar Nero in cui le forze navali dei paesi non rivieraschi non possono accedere liberamente in applicazione dello specifico regime stabilito dalla Convenzione di Montreux del 1936?

Simili domande retoriche portano a ritenere che il fine dell’iniziativa navale araba non sia quello di interdire l’attività di marine straniere. Questo sarebbe contrario al diritto e sarebbe come tale contrastato dalla comunità internazionale. Come del resto è avvenuto in tutti i casi in cui alcuni Paesi hanno tentato unilateralmente di “territorializzare” o “demilitarizzare” zone di acque internazionali. In realtà i paesi arabi hanno voluto assumersi la responsabilità per la sorveglianza di un’area marittima vitale per gli interessi nazionali dei paesi che la fronteggiano. Essa non può quindi che essere vista con favore nel quadro di quella cooperazione regionale che le Nazioni Unite indicano come una delle soluzioni al problema della pirateria al largo della Somalia. Sulla stessa scia si colloca peraltro la volontà dello Yemen di dotarsi di capacità di controllo dei propri spazi marittimi attraverso l’installazione, con il sostegno dell’Italia, del Vessel Traffic Monitoring System, sistema integrato di monitoraggio del traffico navale della Selex che coprirà i 450 km della costa yemenita, dal Mar Rosso al Golfo di Aden e il Mare Arabico.

A meno che l’obiettivo perseguito non sia in effetti, come si sente dire, quello di prevenire ed ostacolare l’eventuale presenza navale di Paesi non graditi. Se così fosse, la questione è però politica. Infatti sul piano giuridico il Mar Rosso era, è e rimarrà un mare semi chiuso in cui vige, a condizione che non vengano lesi i diritti internazionalmente garantiti degli stati costieri, la più ampia libertà di navigazione, ivi compresa la possibilità di svolgere negli spazi extraterritoriali attività militari, soprattutto quando queste, come nel caso del contrasto della pirateria somala, sono autorizzate da specifiche risoluzioni delle Nazioni Unite.

Vedi anche:

N. Ronzitti: Il ritorno della pirateria

V. Miranda: Guerra alla pirateria: salto di qualità nel 2009?