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Dopo le contestate elezioni presidenziali

L’Iran dall’apatia all’entusiasmo alla rabbia

15 Giu 2009 - Riccardo Redaelli - Riccardo Redaelli

Tutto nel giro di poche settimane. In Iran, prima dell’inizio ufficiale della campagna elettorale, sembrava esserci molta rassegnazione fra le file dei sostenitori dei candidati riformisti e moderati. Da anni, del resto, si era smarrito quell’entusiasmo che aveva portato ai trionfi del presidente riformista Mohammad Khatami nel 1997 e delle successive elezioni politiche locali e nazionali. E la dura repressione attuata dagli ultraradicali e dai conservatori aveva lasciato il segno fra la società civile e i giovani.

Poi, però, i modi gentili e un poco demodè del più accreditato rivale del presidente Mahmud Ahmadinejad, il riformista, artista ed ex primo ministro (dal 1981 al 1989) Mir Hossein Moussavi, avevano conquistato sempre più sostenitori. Alcuni sondaggi ufficiosi lo davano addirittura in netto vantaggio nei favori popolari rispetto al presidente. E anche la sua campagna si era potuta svolgere con un’insperata liberalità. Alla televisione di stato – strettamente controllata dagli ultraconservatori – si erano tenuti diversi accesi dibattiti fra i candidati, con Ahmadinejad accusato di essere un avventurista che “spingeva nel baratro la nazione” e ridicolizzato per la sua catastrofica politica economica.

Insomma, dentro e fuori l’Iran, in molti avevano iniziato a sperare che le elezioni sarebbero tornate ad essere come dieci anni fa: non libere nel senso occidentale del termine, ma non manipolate nei risultati, dato che il regime, pur selezionando prima i candidati, non interveniva vistosamente nel modificare gli esiti delle urne. Sembrava quasi di essere tornati ai già ricordati anni dell’impegno politico e civile riformista, con una grande partecipazione popolare ai comizi e alle iniziative politiche.

Un regime sempre più repressivo
I numeri comunicati dal Ministero dell’Interno, invece, hanno spento ogni speranza di cambiamento, generando molti dubbi e perplessità. Mahmoud Ahmadinejad sarebbe stato riconfermato presidente con oltre il 60% dei voti, nonostante l’altissima partecipazione popolare al voto, l’85% secondo i dati del ministero dell’interno. A Moussavi sarebbe andato poco più del 33% dei suffragi. Ininfluenti i risultati degli altri due contendenti. All’ex comandante dei pasdaran, Rezai solo il 2%, al religioso moderato Kharrubi lo 0,9%.

Mussavi – che si era proclamato vincitore subito dopo la chiusura dei seggi – ha parlato di una farsa, appellandosi all’ayatollah Khamenei perché permetta nuove e libere elezioni. Un appello caduto nel vuoto, dato che il leader supremo ha subito definito la giornata del voto come una celebrazione, invitando tutti a riconoscere la vittoria del presidente. Ma le proteste dei sostenitori di Moussavi sono scoppiate spontaneamente in tutta la capitale, scatenando la dura repressione delle forze di polizia. Oltre a diversi morti e molti arresti, sono stati di fatto posti per breve tempo ai domiciliari diversi esponenti di spicco del fronte riformista, fa cui lo stesso candidato e il fratello dell’ex presidente Mohammad Khatami.

Si tratta di proteste non immotivate per chiunque conosca le dinamiche politiche recenti del paese: conservatori e ultra-radicali rappresentano infatti una minoranza nel paese; le loro vittorie degli ultimi cinque-sei anni – in particolare quelle nelle elezioni provinciali e parlamentari – si sono costruite sempre sul non-voto dei riformisti. Lo stesso Ahmadinejad divenne sindaco di Teheran nel 2003 grazie ad un astensionismo senza precedenti. Che oltre l’80% degli elettori iraniani si sia recato ai seggi per votare in massa per lui sembra francamente poco credibile. Ahmadinejad poteva certo contare su un forte seguito nelle zone rurali e nelle province, tradizionalmente più conservatrici, oltre che sulla consistente fetta del voto clientelare degli strati sociali più bassi, ma nelle grandi città il suo governo era altamente impopolare, in particolare fra i giovani che rappresentano un’ampia porzione dell’elettorato.

Si potrà meglio capire il livello delle manipolazioni dei voti quando si analizzeranno in dettaglio i voti di Teheran. È comunque evidente la trasformazione sempre più decisa in senso totalitario e anti-democratico di un regime per lungo tempo atipico, che permetteva un certo grado di dissenso e concedeva alla propria popolazione di esprimere una scelta politica (sia pure fra mille condizionamenti e limitazioni). Il nuovo regime dominato dai militari e dai para-militari (bassij e pasdaran) ha da questo punto di vista molti meno scrupoli ed esitazioni rispetto alla vecchia oligarchia religiosa. Per gli iraniani, il cambio generazionale si è risolto in un peggioramento politico e in un aumento della repressione.

Quale risposta internazionale?
A ogni modo Ahmadinejad resta presidente per altri quattro anni (poi non sarà più rieleggibile per un terzo mandato consecutivo). Che cosa realisticamente la comunità internazionale deve aspettarsi ora dall’Iran? E cosa ne sarà delle offerte di negoziato a tutto campo avanzate da Obama? Non vi è dubbio che da un punto di vista meramente geopolitico il paese si trovi ora in una posizione più forte rispetto ai tempi della prima elezione del presidente ultra-radicale (avvenuta nel 2005). Ora che c’è Obama al posto di Bush, l’obiettivo non è più abbattere la repubblica islamica bensì negoziare e trovare un accordo con essa: un mutamento di strategia imposto anche dai catastrofici risultati dell’ex presidente americano in Medio Oriente. Le difficoltà che sta affrontando la Nato in Afghanistan e in Pakistan, il perdurare della fragilità irachena (la cui situazione interna sembra in involuzione), le troppe crisi internazionali, il logoramento delle forze armate statunitensi suggeriscono una politica di apertura diplomatica verso la repubblica islamica.

In più, la partita sul nucleare per Teheran sembra quasi vinta: Teheran possiede la tecnologia per arricchire l’uranio, ha istallato ormai 7.000 centrifughe e stoccato oltre una tonnellata di uranio debolmente arricchito, ed è sempre più vicino ad avere la capacità potenziale per assemblare un ordigno nucleare (sempre ammesso che lo voglia davvero). In più la crescente collaborazione con Pyongyang fa sospettare che il paese possa avere un programma militare clandestino di fatto non controllabile dalla comunità internazionale.

Per converso, la situazione economica interna è disastrosa, e l’avventurismo di Ahmadinejad allontana gli investitori stranieri di cui il paese ha un disperato bisogno per ammodernare la propria industria legata agli idrocarburi. Infine, proprio la sensazione che l’Iran “stia vincendo” la partita nucleare rende i paesi arabi sempre più inquieti e soprattutto rinfocola le tentazioni di uno strike preventivo nel governo di destra israeliano.

Se il presidente iraniano fosse un attore razionale, questo sarebbe il momento per capitalizzare i propri “asset” geopolitici, avviando trattative serie con gli Usa – come offerto da Washington – da posizioni di forza e non di debolezza. Teheran sbaglierebbe a ritenere permanente la propria forza contrattuale o a sottostimare le reazioni internazionali alle sue provocazioni. Ma un leader che ha costruito tutta la sua immagine su posizioni radicali di antagonismo con l’Occidente, sull’avventurismo politico, sul populismo e sulla retorica più odiosa sarà capace di smentire se stesso e i suoi detrattori?

Sul tema vedi anche:

R. Alcaro: L’Iran, Obama e la lezione europea