IAI
Commissione europea

Barroso for President?

17 Giu 2009 - Gianni Bonvicini - Gianni Bonvicini

È in atto ormai da alcuni mesi la battaglia per la nuova Presidenza della Commissione europea. Prima in modo riservato fra i capi di governo dell’Unione, oggi apertamente dopo le elezioni del Parlamento europeo: i governi, chi più chi meno, sono a favore dello status quo e quindi della riconferma dell’attuale presidente Manuel Barroso; i partiti politici del Parlamento europeo sono invece profondamente divisi sul nome del candidato, con i popolari europei a favore di Barroso, cui si contrappone un cartello guidato dai Verdi di Daniel Cohn-Bendit e composto da buona parte dei socialisti e dei liberali, il cui slogan è “stop Barroso”. Il nome alternativo proposto da questo schieramento è quello dell’ex premier belga Guy Verhofstadt, liberale già candidato alla guida della Commissione nel 2004, ma bocciato, fra gli altri, da Tony Blair.

Un problema istituzionale
Non è quello dei nomi il vero problema. Di per sé il prossimo Consiglio europeo del 18 e 19 giugno potrebbe indicare, come previsto in un primo tempo, il futuro candidato senza preoccuparsi troppo degli umori dei parlamentari europei. Ma l’ostacolo, questa volta, è prima di tutto di natura istituzionale.

A tutt’oggi la composizione della Commissione risponde al dettato del Trattato di Nizza, che già per il 2009 prevede la riduzione di almeno un posto nel collegio dei commissari: quindi 26 al posto di 27. Niente di grave, si potrebbe dire. Ma in realtà, per comprendere la delicatezza della situazione, basta pensare al fallito referendum irlandese sul Trattato di Lisbona: la campagna del “no” trasse alimento proprio dalla prevista diminuzione dei commissari da 27 a 15 e dal rischio di perdere un proprio rappresentante nazionale. Tanto che, per convincere l’Irlanda a riproporre il referendum sul trattato di Lisbona, il Consiglio europeo del dicembre scorso si è impegnato, nel caso di ratifica del nuovo trattato, ad assumere una decisione che consenta a ciascun paese di avere un proprio rappresentante nel collegio di Bruxelles: pessimo compromesso per la governabilità e l’indipendenza della Commissione, ma una delle poche strade a disposizione per uscire dall’impasse.

Vi sarebbe quindi, oggi, l’esigenza di rinviare la nomina del Presidente e la conseguente composizione della nuova Commissione a dopo il referendum irlandese, che verrebbe anticipato a settembre. In questa direzione sembra muoversi la prossima Presidenza svedese dell’Ue che ha deciso di fissare il Consiglio europeo d’autunno il 5 e 6 novembre, ben oltre il tradizionale appuntamento del mese di ottobre. A quell’epoca si spera di avere portato a casa tutte le ratifiche del Trattato e di potere procedere quindi a tutte le nuove nomine contemporaneamente: Commissione, Alto Rappresentante per la politica estera e Presidente del Consiglio europeo.

Verso un nuovo protagonismo del PE?
Parrebbe questa la logica istituzionale più corretta per convincere i capi di governo a rinviare la nomina del prossimo presidente della Commissione. In realtà qui subentra un problema politico non indifferente e cioè il rapporto di potere fra Consiglio europeo e Parlamento europeo, che proprio nella procedura di nomina dell’esecutivo di Bruxelles ha uno dei suoi snodi cruciali.

Com’è noto il Parlamento europeo ha guadagnato, nel passaggio da un trattato all’altro, un ruolo sempre più importante nell’elezione del Presidente della Commissione: anche se il Consiglio europeo mantiene il diritto alla scelta del candidato e alla sua definitiva conferma, una volta esaurita la procedura parlamentare, il Parlamento europeo ha acquisito il potere di respingere o approvare tale nomina. A rendere ancora più “politico” tale ruolo, il nuovo Trattato di Lisbona prevede che, nella scelta del nome, il Consiglio terrà conto dei risultati delle elezioni del Parlamento europeo. E, dato che il Partito popolare europeo ha largamente vinto le elezioni, la conferma di Barroso parrebbe cosa scontata.

Ma facendo bene i conti all’interno del Parlamento europeo la maggioranza relativa di cui dispone il Partito popolare europeo può essere messa in discussione da una coalizione contraria, come è appunto quella che si sta formando intorno al nome di Verhofstadt. Soprattutto perché, se sarà ratificato il Trattato di Lisbona, per eleggere il presidente della Commissione non sarà più sufficiente ottenere la maggioranza dei votanti, ma sarà bensì necessaria la maggioranza dei seggi del Parlamento europeo.

Non solo, ma da come stanno andando oggi le cose fra i partiti politici europei e dalla loro voglia di protagonismo, il Consiglio rischia di trovarsi in anticipo sul tavolo il nome di un candidato, che una coalizione maggioritaria all’interno del Parlamento europeo potrebbe volere esprimere già nel corso della prima sessione inaugurale del 14-16 luglio prossimo. Fatto politico di grande rilievo per i futuri equilibri istituzionali, come sostenuto dal nostro Istituto quando indicava la necessità che i partiti o le coalizioni indicassero propri candidati per la presidenza della Commissione già nel corso della campagna elettorale.

Se ciò dovesse avvenire e se il prossimo Consiglio europeo decidesse di prendere tempo prolungando di qualche mese la vita dell’attuale Commissione, il gioco politico all’interno dell’Unione europea riprenderebbe fiato e ne uscirebbe rafforzato sia il ruolo del Parlamento europeo che quello dell’esecutivo. Sarebbe un fatto politicamente inaspettato, che avrebbe l’effetto di limitare lo strapotere del Consiglio europeo e di contrapporsi all’attuale tendenza alla rinazionalizzazione delle istituzioni e delle politiche dell’Unione. Ma non siamo affatto sicuri che ciò avverrà.

Vedi anche:

Appello: diamo voce ai cittadini europei

I partiti politici europei e la candidatura del Presidente della Commissione di Bonvicini, Tosato, Matarazzo.