L’”opzione zero” dal contesto regionale a quello globale
L’attuale momento strategico internazionale sembra essere caratterizzato dalla compresenza di due dinamiche di fondo: una positiva verso la riduzione degli armamenti, in primo luogo quelli atomici; l’altra negativa verso la proliferazione nucleare. Il problema è che i tempi necessari per la riduzione degli armamenti sono molto più lunghi di quelli della proliferazione nucleare. Una possibile via d’uscita è di stabilire un rapporto fra il contesto globale, in cui dominano le ipotesi di disarmo, e i contesti regionali, in cui invece dominano le tendenze alla proliferazione.
Deterrenza e opzione zero Questo ragionamento vale in particolare per la più ambiziosa delle ipotesi di disarmo, quella che, a partire dalla proposta avanzata sulle colonne del Wall Street Journal nel gennaio 2007 dai cosiddetti “quattro ex-segretari” (Shultz, il promotore, con Perry, Kissinger e Nunn) per finire con il discorso del presidente Obama a Praga il 4 aprile scorso, contempla l’abolizione graduale di tutte le armi nucleari. Tale proposta tende in primo luogo a rispondere politicamente a una percezione diffusa, secondo cui un mondo senza armi nucleari sarebbe più sicuro. Percezione diffusa e tuttavia controversa. Alcuni sottolineano infatti gli importanti benefici che la deterrenza nucleare ha prodotto nell’ultimo mezzo secolo. I favorevoli all’abolizione delle armi nucleari sostengono invece che la stessa deterrenza non possa reggere in un mondo non più bipolare. Ma il progetto di un azzeramento degli arsenali nucleari risponde anche a un’esigenza diplomatica antica: quella che vede tale azzeramento esplicitato fin dal 1968 nel Trattato di Non-proliferazione Nucleare (Tnp) come contropartita, ancorché di prospettiva, data dai paesi firmatari dichiaratamente nucleari a quelli che a tale status, aderendo al Tnp, hanno rinunciato. Non si entra qui nel nel dibattito sui meriti o demeriti politici e diplomatici di quella che si è giunti a chiamare la zero option (l’azzeramento degli arsenali nucleari militari). Si parte invece dal fatto che tale dibattito è parte importante della dinamica di disarmo indicata all’inizio. Anche i più ottimistici tempi di avanzamento della proposta, e del negoziato che dovrebbe farle seguito, non corrispondono infatti a quelli, molto più impellenti, che caratterizzano le attuali dinamiche della proliferazione nucleare. A cominciare dalle ambizioni dell’Iran, ma senza dimenticare i ricatti nord-coreani e neppure la crescente instabilità interna pachistana, che per la prima volta apre lo scenario di una guerra civile in un paese nucleare. Come sopra anticipato, si suggerisce qui di utilizzare l’auspicato, ma lento avanzare del progetto globale di azzeramento degli arsenali nucleari come quadro negoziale entro cui declinare gli opportuni approcci regionali. Questi ultimi dovrebbero mirare a realizzare tale azzeramento in contesti geograficamente più ristretti e in tempi più brevi, dunque più rispondenti alle dinamiche di destabilizzazione regionali. La denuclearizzazione del Medioriente La minaccia iraniana sembra da una parte conferire una giustificazione ex-post alla capacità nucleare di primo e di secondo colpo di Israele. Giustificazione che fino ad ora era mancata, essendo la strategia di impiego e l’identificazione del nemico ancor meno definite, per i non addetti ai lavori, delle capacità di cui gli israeliani dispongono. Dall’altra solleva un dubbio sull’efficacia di tali capacità in termini di deterrenza. Gli stessi governanti israeliani, aiutati dalla retorica antisionista di Ahmadinejad e compagni, non sono inclini a crederci. Donde la loro pressione perché si provveda manu militari ad eliminare sul nascere il potenziale deterrente nemico, pressione che probabilmente per poco non ha portato a un attacco durante lo scorso anno, secondo una sceneggiatura non scritta ma che, di nuovo, gli addetti ai lavori presumibilmente conoscono. Nella nuova amministrazione americana sembra prevalere l’opinione, già autorevolmente sostenuta in passato negli Usa e in Europa, che un intervento contro l’Iran avrebbe effetti dubbi e comunque limitati nel tempo, mentre sicuro, drammatico e soprattutto duraturo sarebbe l’impatto negativo. Anche in Israele c’è un nuovo governo, nel quale prevalgono tuttavia, almeno all’apparenza, opinioni diametralmente opposte. Ma sarebbe saggio da parte di Netanyau e dei suoi ministri contemplare ipotesi alternative per ottenere il blocco della minaccia che giustamente turba i loro sonni. Una di queste, forse la sola, è quella di fermare e sottoporre a controllo internazionale le ambizioni iraniane attraverso la realizzazione di un’opzione zero per gli armamenti nucleari della regione, la quale si collocherebbe a sua volta nel quadro di un processo negoziale globale mirante alla riduzione di tutti gli arsenali atomici fino a livelli simbolici o nulli. L’esito e i tempi di un tale negoziato sono al momento in mente Dei. Quello che non dovrebbe essere in mente Dei è invece il processo, che sarà necessario contempli subito garanzie credibili e durevoli per i paesi chiamati alle rinunce più laceranti a livello regionale. A tale processo dovrebbero partecipare in posizioni di rilievo anche i Nuclear Weapon Countries non riconosciuti dal Tnp, ovvero India, Pakistan e, appunto, Israele. Vedi anche: C. Calia: I paesi arabi e lo spettro dell’espansionismo iraniano R. Matarazzo: Come evitare un Medioriente nucleare |