Gli Usa verso un declino inarrestabile?
Gli Stati Uniti di oggi ricordano l’Unione Sovietica nei suoi ultimi anni di esistenza. Zbigniew Brzezinski, consigliere per la sicurezza nazionale di Jimmy Carter, aveva previsto che l’Urss si sarebbe dissolta perché non era una nazione, ma un “sistema di contenimento militar-economico” di diverse realtà etniche sub-nazionali. L’apparato sovietico, pur tra mille difetti, era riuscito per oltre settant’anni a sostenere e aggregare tutti i gruppi sociali. Quando, tra gli altri molteplici fattori, si sono inceppati i meccanismi economici, il sistema si è disgregato.
Anche nell’America di Obama è in atto una frammentazione sociale. Interi gruppi culturali e trans-culturali sono lasciati ai margini dell’economia: la recessione economica ha portato perfino alla creazione di tendopoli di disoccupati ai limiti delle maggiori città statunitensi. Nel 2008, la disuguaglianza economica americana era pari a quella degli anni venti.
Barack Obama ha vinto la sua campagna presidenziale facendo leva, fra l’altro, su ispanici, afro-americani, e sulle nuove generazioni. È un grande punto di svolta. Ma è anche la consacrazione ufficiale del fatto che non esiste più “una sola America con tante etnie”, ma piuttosto “tante Americhe per tante etnie”. Con la crisi, la tendenza già in atto si è accelerata: l’America si è frammentata in tante realtà sub-nazionali. Non sono delimitate geograficamente come quelle sovietiche nel 1991: sono trasversali, a cavallo di quartieri, città, fabbriche vuote e strade affollate.
L’America s’interroga da tempo su se stessa. È del 2004 il celebre libro “Who Are We?” di Samuel P. Huntington. Nella sua indagine, lo studioso cercava di comprendere quale fosse la “base comune” della società americana. La si poteva individuare in vari elementi, compresa la sovrastruttura religiosa: il Presidente giura pur sempre sulla Bibbia. Ma pregnante rimaneva il ruolo della soddisfazione personale ed economica, l’idea del “sogno americano”. Che però è stato messo in discussione dalla crisi. Sempre più i college di elite americani scelgono i candidati economicamente più affidabili e il luogo di nascita e la famiglia di origine rimangono le condizioni più rilevanti per determinare se un ragazzo avrà successo nella vita. La mobilità sociale, elemento portante della promessa americana, si sta arrestando. L’idea di America si sta dissolvendo?
Il parallelo Obama-Gorbaciov
Il presidente americano dovrà affrontare la disgregazione del tessuto sociale, così come Gorbaciov dovette affrontare le spinte centrifughe delle etnie slave e asiatiche, nei quattro angoli dell’impero sovietico in rovina.
Come Gorbaciov, Obama deve far fronte a un sistema al collasso. L’implosione dell’Urss impose un nuovo sistema di governo e la formazione di una nuova elite amministrativa per rimpiazzare la nomenklatura sovietica. Analogamente l’attuale crisi finanziaria impone all’amministrazione americana un cambiamento al vertice dell’economia, della finanza e dell’industria.
Obama ha annunciato che ritirerà gran parte delle truppe dal Medio Oriente, e sta sviluppando un nuovo approccio diplomatico. Sono mosse simili a quelle intraprese da Gorbaciov. I russi ritirarono in un tempo relativamente breve i 500.000 soldati che avevano in Europa orientale. “La libertà di scelta è un principio universale per il quale non ci dovrebbero essere eccezioni. Non siamo arrivati alla conclusione dell’immutabilità di questo principio semplicemente tramite le buone intenzioni. Vi siamo stati condotti da un’analisi imparziale delle dinamiche oggettive dei nostri tempi. La crescente varietà di modelli di sviluppo sociale in diversi Paesi sta diventando un’espressione tangibile di tali dinamiche”. È quanto dichiarò Gorbaciov alle Nazioni Unite il 7 dicembre 1988, ma potrebbe far parte anche di un discorso dell’attuale presidente americano.
L’Iraq del 2003 è stato per l’America ciò che l’Afghanistan del 1980 è stato per l’Urss: un grande buco nero in cui sono precipitate le illusioni dell’espansionismo neoconservatore. La massa di americani ai margini della società, gli oltre 40 milioni di persone senza assistenza sanitaria, i 138 gruppi linguistici nel quartiere del Queens, a New York: tutti si sono chiesti se i tremila miliardi di dollari spesi per la guerra in Iraq fossero giustificabili. È una guerra che ha accentuato la polarizzazione politica. Il sogno americano rischia così di lasciare spazio a frammenti di America.
L’Afghanistan suggerisce altre analogie con l’Urss: il Middle East Times ha osservato che “come Obama, Gorbaciov ha ereditato una guerra in Afghanistan nel mezzo di una crisi economica e dopo un periodo di particolare purezza ideologica nella politica estera sovietica sotto lo sclerotico Breznev”. Dopo un periodo inconcludente durato dal 1979 al 1985, i russi cambiarono tattica, e adottarono una nuova strategia di “counterinsurgency” ideata dal generale Zaitsev. A livello politico Mosca convinse il governo afghano a portare avanti un piano di “riconciliazione nazionale” per placare l’opposizione politica. Ma poi i sovietici dovettero abbandonare il paese nel 1988. Obama ha dichiarato di voler aumentare il numero di truppe in Afghanistan, e persegue un piano di rafforzamento del governo basato sulla riconciliazione nazionale Ma in generale la sua politica estera si basa sul riconoscimento che il ruolo americano nell’arena internazionale deve essere diverso dal passato. Un’incontrastata egemonia non è più perseguibile.
Gorbaciov gestì la disgregazione territoriale sovietica; Eltsin ha subito l’“accerchiamento” occidentale tramite la Nato, una dinamica che è continuata anche con Putin al primo mandato. Anche Obama e l’America dovranno reagire ai rischi di disfacimento nazionale, e al contempo, alla pressione, che potrebbe crescere nel tempo, degli attori esterni. Impresa non facile, ma indispensabile, per evitare un esito alla sovietica.
Vedi anche
Jason W. Davidson, Roberto Menotti: Il primato americano e il futuro bipolare
Raffaello Matarazzo: Obama e l’eclissi della Right Nation