Obama e il dilemma venezuelano
Nell’ultimo decennio si è assistito a un evidente deterioramento dei rapporti tra gli Stati Uniti e gran parte dei paesi latinoamericani. Sarebbe ingeneroso attribuire a George W. Bush tutte le responsabilità di questo deterioramento. In America Latina la contestazione dei progetti d’integrazione commerciale regionale, che hanno caratterizzato la politica di Washington nel dopo Guerra Fredda, si è sviluppata ben prima dell’elezione di Bush nel 2000. Lo stesso dicasi del ritorno in America Latina di forme di populismo radicale che hanno trovato un facile bersaglio nel potente vicino settentrionale, fatto oggetto di accuse spesso pregiudiziali e stereotipate. Non a caso, il campione di questo populismo, il presidente venezuelano Hugo Chávez, fu eletto per la prima volta nel 1998, in pieno clintonismo e ben prima dell’arrivo di Bush e dei neoconservatori.
La risposta di Bush alla sfida di Chávez è stata però manichea nella forma, sterile nella sostanza e controproducente nei risultati. La retorica infuocata contro il presidente venezuelano – il primo segretario della Difesa di Bush, Ronald Rumsfeld, arrivò a paragonarlo a Hitler – ha finito per rafforzare la sua immagine e il suo prestigio in Venezuela e nel resto del continente. L’effettivo ruolo degli Stati Uniti nel tentato golpe contro Chávez della primavera del 2002 non è mai stato chiarito. Ma le ingerenze statunitensi nella vita politica venezuelana sono state frequenti, palesi e inefficaci.
Il Venezuela è diventato il paese dell’America Latina cui è destinata la parte maggiore dei fondi del National Endowment for Democracy, l’organizzazione privata finanziata dal Congresso statunitense che sostiene programmi di promozione della democrazia nel mondo. Gran parte di questi fondi è stata destinata a forze politiche e a gruppi dichiaratamente ostili a Chávez; ciò ha contribuito a delegittimare l’opposizione al regime, che è stata accusata di essere al soldo degli Usa, e a giustificare le chiamate alle armi di Chávez contro l’imperialismo statunitense.
Durante il secondo mandato di Bush, in concomitanza con una più generale moderazione della politica estera statunitense, le ingerenze degli Usa negli affari venezuelani si sono fatte meno frequenti ed esplicite. Eppure, ancora nella dottrina di sicurezza nazionale degli Stati Uniti del 2006 – un documento assai più cauto, anodino e meno ideologico di quello pubblicato nel 2002 – si ricorreva a una retorica assai poco diplomatica laddove si denunciava il “demagogo” venezuelano “che naviga nei soldi garantiti dal petrolio, attenta alla democrazia e cerca di destabilizzare la regione”.
La sfida di Hugo Chávez all’influenza degli Stati Uniti in America Latina durante l’amministrazione Bush è stata a sua volta multiforme e radicale. Così radicale da risultare talvolta grottesca e dunque poco credibile. Eppure ha scavato un profondo fossato di diffidenza tra i due paesi, ridotto il margine di manovra dei fautori del dialogo in entrambe le capitali e acuito le tensioni tra Washington e numerosi paesi dell’America Latina.
L’attivismo di Chávez si è manifestato su più fronti: ha acquistato armi in quantità e coltivato le relazioni con paesi come l’Iran; ha seminato zizzania nel continente cercando di formare un fronte di amici ostili agli Stati Uniti, compresa Cuba e le Farc colombiane, spine nel fianco del più stretto alleato di Washington e fonte di instabilità in buona parte della regione; ha usato le ricche risorse incassate col petrolio per reclutare alleati e mettere i bastoni tra le ruote alla vagheggiata, ma mai realizzata, Area di Libero Scambio delle Americhe (Alca); e, infine, ha rispolverato il più tradizionale armamentario del nazionalismo populista. Chávez ha trovato un discreto seguito in una regione dove l’antiamericanismo rimane un capitale politico d’un certo peso e dove è venuto crescendo negli anni un più generale scontento verso la filosofia liberista del cosiddetto “Washington Consensus” e, più di recente, verso l’ostentato unilateralismo americano. D’altra parte, proprio tali sfide e la capacità di riproporle in forme sempre nuove, perfino con l’aperta provocazione, costituiscono per Chávez un fine in sé: un propellente chiave del suo consenso e della sua vaga ideologia socialisteggiante. Sennonché un conto è sostenere la parte con Bush alla Casa Bianca e un altro farlo con Obama; così come è più facile gridare al lupo imperialista col prezzo del petrolio a quasi 140 dollari al barile che quando esso scende ai 40/50 degli ultimi mesi.
Stando così le cose, il “che fare” con Chávez suona come un interrogativo senza risposte: un po’ come tentare la quadratura del cerchio. Ma proprio dagli errori di Bush l’amministrazione Obama può trarre utili lezioni. Non si tratta di modificare radicalmente la linea di condotta, assumendo un atteggiamento conciliante, che risulterebbe poco credibile e difficilmente modificherebbe i comportamenti di Chávez. Ma se offrire la carota della collaborazione serve a poco, ancor meno utile è agitare un bastone di cui gli Stati Uniti ormai non dispongono più. È essenziale invece che i rapporti economici proseguano (di fatto le relazioni commerciali tra i due paesi si sono fatte ancora più strette e intense negli ultimi anni) e che si evitino sterili dispute ideologiche. Soprattutto, Obama potrà trarre grandi vantaggi da gesti concreti d’impegno costruttivo, ora spingendo il piede sull’acceleratore delle cooperazioni strategiche, specie quella energetica, ora sollevandolo poco a poco da quello che tiene Cuba contro il muro, come ha già cominciato a fare. Perché se è improbabile che Chávez cambi (e certo non cambierà a causa delle pressioni statunitensi), potrebbe invece davvero cambiare il continente intorno a lui.
Mario Del Pero insegna Storia degli Stati Uniti all’Università di Bologna;
Loris Zanatta insegna Storia dell’America Latina all’Università di Bologna.