Le insidie del ribasso del petrolio
L’11 luglio 2008 sarà una data da ricordare nella storia dell’energia: il petrolio ha raggiunto quel giorno il prezzo di 147 dollari al barile, massimo assoluto in termini nominali e reali. Una quotazione simile, probabilmente, non verrà raggiunta di nuovo molto presto. Nei cinque mesi successivi al nuovo record, il barile ha perso poi il 70% del suo valore, tornando ai livelli del 2004: pochi mesi di crisi economica hanno cancellato tutti i guadagni realizzati in cinque anni. È stata la discesa più rapida della storia, che ha stracciato il primato precedente di “caduta”, stabilito tra il 1983 e il 1986.
Tra speculazione e mercato
Nei mesi in cui il petrolio guadagnava valore settimana dopo settimana, si è dibattuto molto se il fenomeno fosse provocato dalla “speculazione” o dai “fondamentali del mercato”. Secondo i sostenitori della prima tesi il prezzo del greggio era gonfiato da una bolla finanziaria pronta a esplodere. Quanti invece ponevano l’accento sulle dinamiche di offerta e consumo facevano notare come la produzione di petrolio non fosse in grado di tenere il passo della domanda, trainata peraltro dalle economie asiatiche: l’aumento dei prezzi era, secondo loro, una conseguenza della scarsità relativa di petrolio.
Nel discorso si è inserito anche l’economista Paul Krugman, che di lì a poco avrebbe ricevuto il premio Nobel per l’economia. In un articolo pubblicato sul New York Times il 12 maggio 2008, Krugman si schierava apertamente per la teoria dei “fondamentali del mercato”. Egli rilevava che la grandi corse speculative lasciano sempre una traccia evidente, cioè un “accumulo di scorte”. Solo accumulando il petrolio nei depositi, sosteneva Krugman, si può speculare, perché è così che si impedisce alla produzione di raggiungere il mercato, alterando così la struttura dei prezzi.
Non era il solo a pensarla così. Nell’agosto 2008, il Congresso americano aveva iniziato a preoccuparsi molto della continua salita dei prezzi petroliferi: il barile sopra i 130 dollari stava lentamente esercitando una spinta inflattiva sull’economia, minava settori industriali come quello automobilistico e aereo, ed esercitava un’azione fin troppo energizzante sui programmi esteri di Paesi produttori quali Russia e Venezuela: all’aumentare del prezzo del barile, l’ambizione politica aumentava proporzionalmente. Il Venezuela si è potuto permettere di spedire petrolio a prezzo di costo a Cuba, mentre la Russia ha impiegato parte dei proventi energetici per rimettere in moto la propria macchina bellica.
Dall’inchiesta realizzata dal Congresso sono emersi però pareri discordanti; tra gli altri, il banchiere di J.P. Morgan Lawrence Eagles ha confermato la tesi di Krugman: nella sua dichiarazione, ha sostenuto che “gli alti prezzi energetici sono fondamentalmente un risultato di offerta e domanda”.
Chi ha mostrato pochi dubbi è la rete televisiva Cbs: si è trattato di speculazione. Nella celebre trasmissione di approfondimento “60 minutes” andata in onda l’11 gennaio è stata ricordata un’intervista rilasciata l’estate scorsa da Dan Gilligan, presidente della “Petroleum Marketers Association”, un’associazione di operatori commerciali del petrolio. Gilligan aveva rilevato che “dal 60 al 70 % dei contratti petroliferi nel mercato dei futures è detenuto da soggetti speculativi. Non da aziende che hanno bisogno di petrolio, non da compagnie aeree, non dalle aziende petrolifere, ma da investitori che stanno cercando di far soldi dalle loro posizioni speculative”. L’hedger Micheal Masters ha calcolato che gli investimenti degli istituti finanziari (fondi di investimento, banche d’affari) in titoli petroliferi erano saliti da 13 a 300 miliardi di dollari in poco tempo. Si trattava di un enorme giro di cartaccia, che aveva poco a che vedere con lo scambio reale dei barili. Non appena l’economia ha avuto dei problemi, il castello di cartacce è venuto giù con i prezzi del petrolio.
I nodi vengono al pettine
A giudicare dall’evoluzione del mercato, sembrerebbe quindi che Krugman avesse sbagliato nella sua analisi. Eppure, se speculazione è stata, una domanda rimane: come mai non si sono formate scorte?
Parte della critica ha sostenuto che le scorte fossero state accumulate “sottoterra”: è bastato che i paesi produttori non immettessero nel mercato abbastanza petrolio, perché si attivasse una speculazione. Nella crisi del 1973 c’era stato un accumulo di riserve “mid-stream”, visibili e monitorabili; nel boom del 2003-2008, l’accumulo sarebbe stato invisibile, perché relativo a una riduzione della produzione “alla fonte”. Forse Krugman aveva sbagliato nell’adottare l’approccio analitico del 1973 per la situazione del 2008?
Probabilmente non era questo il problema: i paesi produttori lavoravano praticamente al massimo delle loro capacità. Sembrerebbe quindi che la spiegazione dell’assenza di scorte sia un’altra: non c’erano scorte, perché la domanda di petrolio stava salendo, e la produzione non cresceva abbastanza in fretta. Su questa “base di mercato”, poi, si è inserita la speculazione. Parte dell’aumento dei prezzi dipendeva dai fondamentali di domanda e offerta: Krugman non aveva del tutto torto.
Nel 2002, i Paesi produttori potevano gestire una capacità produttiva residua di oltre 5 milioni di barili al giorno, attivabile in caso di necessità; nel 2004, questa capacità si era ridotta a meno di un milione di barili. Il problema è che per attivare un progetto petrolifero servono almeno cinque anni (periodo che ultimamente tende peraltro ad allungarsi), e l’offerta è sempre in ritardo rispetto alla domanda. Il Baker Institute ha rilevato che dal 1998 gli investimenti in ricerca e sviluppo delle cinque maggiori compagnie petrolifere mondiali non sono aumentati in maniera significativa, almeno fino al 2006.
Anche i dati relativi agli stock petroliferi americani provano che l’aumento dei prezzi aveva una base “reale”. All’inizio del 2003, nei depositi americani c’erano circa 1.553 milioni di barili; alla fine del 2007 1.671 milioni. C’è stato perciò un pur minimo aumento annuale nei depositi dell’1,7%, che comunque è stato superiore all’aumento dei consumi petroliferi americani, che nello stesso periodo è stato dell’1,2% circa l’anno.
Il vero problema arriva ora. Ciò che si trascura di rilevare infatti è che, così come c’è stata speculazione al rialzo, adesso la speculazione potrebbe essere “al ribasso”. Così come prima i fondi speculativi scommettevano sul rialzo delle quotazioni petrolifere, adesso puntano a un ribasso. L’attuale valore del barile, ancora una volta, non rispecchia le necessità del mercato.
Ma stavolta è diverso dall’anno precedente. Nel 2007, il 56% dei maggiori introiti petroliferi è stato investito dalle cinque maggiori compagnie petrolifere internazionali in operazioni finanziarie, e non in esplorazione e produzione. Soprattutto da parte della maggiore di esse, la Exxon, c’era la consapevolezza che il prezzo alto era dovuto alla speculazione, e perciò non giustificava nuove iniziative di esplorazione. Si è preferito “incassare” gli introiti in eccesso. Adesso, il petrolio sotto i 40 dollari ha il potenziale di bloccare gran parte delle nuove iniziative. Se nel 2009 le aziende petrolifere bloccano gli investimenti in esplorazione e sviluppo, l’industria petrolifera potrebbe arrivare alla prevista rinascita economica del 2011-2012 con un impellente deficit produttivo.
Già il 23 ottobre dell’anno scorso il Financial Times titolava “I prezzi petroliferi in caduta mettono a rischio le forniture”. E il petrolio era ancora a 70 dollari al barile. Questa situazione ha forti implicazioni politiche. Molti paesi produttori hanno basato le loro politiche fiscali nazionali su un profilo di prezzi per il settore del petrolio superiore ai 60 dollari. La compagnia di stato russa Gazprom, ai tempi dell’articolo del Financial Times, aveva annunciato difficoltà nel rifinanziare il suo debito. Non si tratta di una crisi solo industriale: fino al 2008 il petrolio ha rappresentato il 50% delle esportazioni russe.
Altri Paesi meno stabili della Russia, quali il Venezuela o la Nigeria, hanno basato le loro proiezioni economiche su un profilo di prezzo petrolifero che in alcuni casi supera gli 80 dollari al barile. Certo: potrebbe essere stato un loro errore di valutazione. Ma un prezzo troppo basso, come rilevato da molteplici ricerche, ha il potenziale di scatenare degli sconvolgimenti politico-sociali che bloccherebbero la produzione nazionale. Le tensioni civili sorte ad Aceh nel 1998 e in Angola nel 2002, così come la stessa crisi sovietica sul finire degli anni novanta, hanno avuto come causa scatenante uno shock petrolifero al ribasso, e ci sono voluti anni perché questi paesi tornassero a un livello produttivo proporzionato alle loro capacità.