IAI
Rapporti transatlantici

L’America potrebbe uscire dalla crisi più forte di prima

26 Feb 2009 - Alessandro Marrone - Alessandro Marrone

“Gli Stati Uniti hanno il potenziale nel medio-lungo periodo per tornare a svolgere un ruolo guida nel mondo”. È quanto sostiene Robin Niblett, direttore di Chatham House, uno più autorevoli centri studi di politica internazionale del mondo con cui lo IAI collabora nell’ambito di progetti che riguardano il Mediterraneo, il peacekeeping in Africa e la difesa europea. Lo abbiamo intervistato sulle prospettive dell’amministrazione Obama e il ruolo dell’America nel mondo.

Chatham House sta per pubblicare il rapporto “A question of leadership: rethinking America’s role in a changed world”. In che modo l’amministrazione Obama dovrebbe ripensare la leadership americana?
La nuova amministrazione si è posta l’obiettivo di riconquistare la leadership mondiale che l’America deteneva in passato. In ultima analisi la stabilità e la sicurezza internazionali sono meglio garantite, e forse esclusivamente possibili, nel quadro della leadership americana. Tuttavia, anche con un presidente carismatico come Obama, sarà difficile per gli Stati Uniti tornare a svolgere il ruolo guida che hanno avuto fino al 2001.

Il vostro studio dà per scontato un cambiamento in senso multipolare dell’attuale sistema internazionale. Lei pensa che l’Ue sarà uno dei poli del nuovo ordine? E, in questo caso, sarà rivale o alleata degli Stati Uniti?
L’Ue eserciterà una leadership regionale e competerà per quella globale su alcune materie, quali il riscaldamento climatico, la riforma dell’architettura finanziaria mondiale e i negoziati sul commercio internazionale. Fondamentalmente, l’Europa vuole essere un partner degli Stati Uniti. I leader europei e l’attuale leadership americana, sono consapevoli che fare fronte comune ove possibile aumenta la capacità di promuovere i propri interessi. In un mondo in cui l’avanzamento della democrazia rimarrà in stallo per un po’, e le nazioni autoritarie sceglieranno sempre più autonomamente la propria strada, è logico aspettarsi che Europa e Stati Uniti stiano dalla stessa parte.

In questo scenario come viene considerata la Nato dalla nuova leadership americana? In passato Washington l’ha vista più come fonte di vincoli date le divergenze con gli alleati, che come uno strumento per comuni impegni militari.
Credo che la Nato aiuti gli Stati Uniti più che limitarli, perché costituisce un forum nel quale Washington può esercitare la sua influenza a livello transatlantico, essendo di gran lunga la prima potenza militare all’interno dell’alleanza. Inoltre occorre tenere presente che gli Stati Uniti controllano il comando militare alleato e che la Nato sta gestendo importanti operazioni in Afghanistan e altrove. L’America è e rimarrà la nazione più potente. Non ci sono altri paesi o gruppi di paesi che possono aspirare a rimpiazzarla nel suo ruolo mondiale. Alcuni possono resistere alla leadership americana, ma non sono in grado di sostituirsi ad essa. Anche gli europei mostrano talora questa ambivalenza nei confronti degli Stati Uniti, che si riflette anche nella Nato.

La crisi economica, che ha avuto origine negli Stati Uniti, ha indebolito la leadership americana. Tuttavia essa oggi colpisce duramente anche le economie europee, russa e giapponese, mentre quelle cinese e indiana hanno difficoltà crescenti a esportare verso questi mercati. Quale polo del sistema internazionale è probabile che uscirà più rafforzato dalla crisi?
Penso che gli Stati Uniti abbiano il potenziale nel medio-lungo periodo per recuperare molto del potere economico perso negli ultimi anni. In primo luogo grazie al loro grande mercato interno che è aperto, dinamico e in grado di attirare immigrazione altamente qualificata. In secondo luogo grazie ai livelli di eccellenza del loro sistema educativo, e alla loro capacità di creare e mettere a frutto nuove tecnologie. Invece la Cina deve affrontare enormi problemi interni, la Russia ha troppe debolezze strutturali, e sia il Giappone che l’Ue non hanno la capacità di attirare e integrare immigrazione qualificata. Di conseguenza, dopo la crisi gli Stati Uniti potrebbero ritrovarsi più forti di prima. Tuttavia gli altri paesi hanno imparato dalla crisi che non possono contare come in passato sul mercato americano, e stanno perciò cercando di ridurre la loro dipendenza economica dagli Stati Uniti. Ad esempio la Cina sta iniziando a basare la propria economia maggiormente sulla domanda interna e a diversificare le esportazioni.

Che limiti pone a Obama l’impegno militare in Iraq ereditato da Bush? Il successo delle recenti elezioni provinciali permetterà un rapido ritiro delle truppe americane?
I limiti del potere militare degli Usa sono emersi in piena luce tra il 2003 e il 2007, prima del surge, e questo ha rafforzato i nemici dell’America. Anche se nel 2009 gli Stati Uniti avvieranno rapidamente il ritiro dall’Iraq, probabilmente per qualche anno vi rimarranno schierati tra i 40 e i 50 mila soldati americani. Perciò l’America continuerà ad essere un attore “interno” alla regione, anziché un attore esterno in grado di esercitare un’influenza indiretta. Ciò significa che per i suoi nemici rimarrà un bersaglio fisico a portata di mano. Il rischio è che nei prossimi anni la diplomazia americana continui ad avere in Medio Oriente un limitato spazio di manovra.

Come gestirà Obama l’impegno militare in Afghanistan?
Negli ultimi mesi lo staff presidenziale sta ripensando la strategia americana in Afghanistan. Di certo l’amministrazione invierà truppe aggiuntive per diminuire il livello delle attività dei talebani – è stato infatti annunciato un invio di altri 17 mila soldati – ma c’è una crescente consapevolezza che usare i marines per sconfiggere militarmente i talebani potrebbe essere controproducente, come hanno sostenuto gli europei. Perciò l’aumento di truppe servirà principalmente a garantire un periodo di transizione verso una nuova strategia, evitando che si deteriorino ulteriormente le condizioni di sicurezza del paese. In questo contesto la richiesta agli alleati europei di inviare più truppe da combattimento ha meno rilevanza, mentre diventa importante il sostegno economico e logistico che l’Europa può offrire.

In che misura e in che direzione Obama modificherà la politica americana verso l’Iran?
Credo che all’inizio Obama aprirà diplomaticamente all’Iran in modo inedito per gli Stati Uniti, nel tentativo di raggiungere un compromesso per fermare il programma nucleare. Ma se questo approccio non dovesse funzionare, allora Obama tornerà ad una politica molto più aggressiva.

Negli ultimi anni l’Ue ha compiuto importanti passi avanti non solo nel suo processo di allargamento, ma anche nel rafforzamento della sua proiezione internazionale e regionale, nel quadro della Politica di aicurezza e difesa (Pesd). Quale rapporto cercherà di stabilire Obama con l’Ue?
Obama cercherà di creare forti relazioni bilaterali con Gran Bretagna, Francia e Germania. Ma allo stesso tempo l’Ue come tale avrà un importante ruolo da giocare su temi come il riscaldamento climatico su cui ha una posizione unitaria. Inoltre il dialogo interno all’Unione sulla riforma del sistema finanziario internazionale peserà nel prossimo G20, anche per il ruolo dell’Ue nei negoziati del Wto. Afghanistan a parte, tuttavia, l’Ue non sarà centrale per le priorità di Obama, che sono da un lato lo sviluppo delle relazioni con Russia e Cina, e dall’altro la gestione delle crisi mediorientali.

Robert Gates resta al Pentagono, Hillary Clinton va al Dipartimento di Stato, l’ex generale James Jones nominato Consigliere per la sicurezza nazionale. Obama ha promesso una svolta in politica estera, ma intanto c’è una certa continuità con le precedenti amministrazioni
Quando Obama parlava di un “change” intendeva un cambiamento rispetto agli aspetti più estremi della dottrina Bush, non rispetto alla tradizionale politica estera americana. Il nuovo presidente probabilmente riprenderà il tradizionale approccio basato sul negoziato con gli alleati senza pregiudizi ideologici. Inoltre userà un linguaggio più diplomatico e cercherà di agire nel quadro dell’Onu. Gli esperti di cui Obama si è circondato hanno per l’appunto una concezione tradizionale della politica estera americana.

La notte delle elezioni americane la London School di Economics era affollata di studenti provenienti da ogni parte del mondo felici di festeggiare la vittoria di Obama. Secondo lei questo spostamento dell’opinione pubblica mondiale in favore degli Stati Uniti è strutturale o contingente?
L’istinto mi dice che è più contingente che strutturale. Gli europei percepiscono Obama come un europeo alla guida della Casa Bianca, e alcuni tendono persino a identificarsi con Obama grazie al suo background particolarmente internazionale. Ma già le difficoltà che ha incontrato Obama nel far approvare il pacchetto di stimolo all’economia e nello gestire la crisi palestinese mostrano quanto sia difficile cambiare alcune caratteristiche strutturali dell’America. Gli americani sono fisicamente lontani delle aree più instabili del mondo: non temono l’Iran come lo temono gli arabi, non si preoccupano del nord Africa come gli europei o della Russia come i polacchi. Possono perciò avere una visione più distaccata di questioni che per altri rappresentano una realtà incombente, anche se a volte il mondo fa irruzione in America come accaduto l’11 settembre.