L’ombra di Obama sulle elezioni israeliane
Il ciclone Obama sta investendo anche la campagna elettorale israeliana, quasi più intensamente della guerra di Gaza, su cui il consenso interno era (e rimane) pressoché totale. Tzipi Livni, ministro degli Esteri e leader del partito di centro Kadima sta usando l’argomento che solo un governo guidato da lei può trattare efficacemente con gli americani. Un governo diretto da Benjamin Netanyahu, il leader del partito di destra, il Likud, avrebbe invece, mette in guardia la Livni, molte più difficoltà con la nuova amministrazione. Accusa solo in parte vera: nessuno tra i politici israeliani conosce meglio gli Stati Uniti di Netanyahu, che sa quanto gli americani sappiano essere, in certe situazioni, molto determinati. Un piccolo e recentissimo segnale: anche Bush a fine mandato non ha concesso il perdono presidenziale a Jonathan Pollard, ebreo americano condannato nel 1986 per spionaggio a favore di Israele.
Uno scenario complesso
Le elezioni del 10 febbraio vedranno probabilmente una forte risalita della destra del Likud, che potrebbe arrivare a conquistare 29 seggi, e anche la destra più radicale di Avigdor Lieberman, Israel Beitenu (Israele Casa Nostra), che ha la sua base tra gli ebrei provenienti dalla Russia, sembra destinata ad accrescere il suo peso elettorale. Kadima perderà alcuni seggi come anche i laburisti guidati da Ehud Barak, ministro della Difesa, in caduta libera fino alla guerra di Gaza e poi in ripresa.
È probabile inoltre che i partiti di estrema destra, gli ultraortodossi e i partiti arabi mantengano i loro voti, avendo un elettorato per definizione fedele. Gli spostamenti saranno quindi per lo più il risultato di una parziale erosione di posizioni altrui, anche se i partiti summenzionati si spartiranno i voti in libera uscita del Partito dei pensionati, formazione di destra atipica che aveva avuto ben 7 seggi nel 2006.
Se queste previsioni saranno rispettate, Kadima e Likud saranno virtualmente alla pari e per il presidente Shimon Peres la scelta della personalità a cui conferire l’incarico di primo ministro sarà particolarmente difficile. Per non parlare della formazione del nuovo esecutivo. Sarà, con ogni probabilità, un governo sotto il ricatto costante dei partitini, che penderà comunque a destra perché la sinistra in Israele è oggi chiaramente minoranza.
Il 2009 sarà un anno di profonda revisione dei rapporti tra Stati Uniti e Israele. Obiettivi, strategie, metodi dovranno essere ridefiniti. Il cambiamento forse non sarà radicale, ma neppure cosmetico. Non sarà un processo indolore, certamente non per Israele, a lungo abituata all’indulgenza di Bush e in genere convinta di poter in un modo o nell’altro influenzare l’amico americano. Due paesi alleati, ma che hanno obiettivi molto diversi e non di rado divergenti – globali, quelli americani, regionali se non domestici, quelli di Israele. E nei disegni strategici degli Usa, unica superpotenza globale rimasta, Israele non può che avere un ruolo nel complesso, secondario rispetto ad altre priorità.
L’iniziativa non potrà che venire da Washington, da una presidenza Obama i cui elementi di discontinuità rispetto alla politica di Bush sono visti in Israele come potenzialmente dirompenti. Il Segretario di Stato Hillary Clinton non è più la senatrice di New York, così attenta alle priorità di Israele, bensì la teorica dello smart power. L’inviato speciale per il Medio Oriente George Mitchell, che si è già occupato di Israele e Palestina per conto di Bill Clinton e George Bush, stavolta ha alle spalle una presidenza che intende perseguire una politica “aggressiva”, come la si è definita, in vista di un accordo di pace. Il fatto poi che Obama abbia scelto di fare la sua prima telefonata all’estero al Presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, ha suscitato molti sospetti e apprensioni in Israele.
Anche la presenza alla Casa Bianca di un capo di gabinetto considerato filoisraeliano come Rahm Emanuel non si presta a un’interpretazione univoca: non sono pochi infatti i sostenitori americani di Israele che parlano di una nuova politica, di tough love. Appoggio sì, ma con franchezza e se necessario con durezza. Israele rigetta da sempre l’appoggio critico, valga l’esempio dell’insofferenza verso le critiche europee, ma con gli Stati Uniti avrà molta più difficoltà a tenere quest’atteggiamento di chiusura. Peraltro, membri dell’amministrazione come Mitchell e Emanuel, e la stessa Clinton, conoscono bene tutti gli argomenti, anzi tutti i trucchi delle due parti in conflitto, le quali quindi ben difficilmente potranno limitarsi alle vuote promesse fatte tante volte a Condoleezza Rice. Sullo sfondo restano i rapporti sempre più dialettici con la comunità ebraica americana, che ha votato in massa per Obama, vuole la pace e non condivide molte delle scelte, politiche, ma anche religiose, dei confratelli israeliani. Il confronto tra queste diverse visioni dell’ebraismo, finora svoltosi a porte rigorosamente chiuse, sta diventando pubblico, e tende a inasprirsi.
Problemi di fondo
Ma anche con un intenso e costruttivo ruolo americano, il percorso verso la pace è estremamente difficile a causa di due nodi molto complicati che possono essere risolti solo attraverso iniziative risolute e coraggiose.
Il primo è la definizione di un interlocutore palestinese autentico sulla base dei risultati delle elezioni del parlamento e del presidente palestinese previste per l’inizio del 2010. Hamas ha vinto le elezioni del 2006, che a detta degli stessi osservatori internazionali si sono svolte in modo corretto, ed è presumibile che le rivinca tra meno di un anno. Se la guerra di Gaza voleva impedire proprio questo, potrebbe facilmente rivelarsi un boomerang. Finora Israele e l’Occidente hanno fatto leva sulla spaccatura, accentuata anche ad arte, tra Hamas e Autorità Palestinese/Fatah, ma non è detto che questo sia ancora possibile dopo elezioni che vedano Hamas conquistare anche la presidenza. Senza un interlocutore palestinese affidabile e rappresentativo di tutti i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania, non esiste alcuna possibilità di accordo.
Il che porta a una conclusione inevitabile: occorre trattare con Hamas con intelligenza e audacia, e sfruttare fino in fondo le sue caratteristiche meno esplorate: non vuole perdere il suo elettorato, in buona parte laico e giovane, e ha una duttilità volutamente ignorata. Gli Stati Uniti hanno in questo campo capacità che vengono da lontano: nel 1970, nel bel mezzo del Settembre Nero, quando re Hussein usò l’esercito per espellere la leadership e le milizie dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) dalla Giordania, un giovane diplomatico americano, Robert Pelletreau, iniziò contatti informali ad Amman, in Giordania, con l’Olp, e li riprese a Tunisi, allora sede dell’Olp, a fine 1988, con un percorso che sarebbe poi sfociato negli accordi di Oslo.
Con una controparte palestinese forte – esattamente il contrario di quanto perseguito da Israele fino a oggi – si può sperare di mettere intorno al tavolo Israele, palestinesi, vicini arabi, garanti e sponsor occidentali in vista della creazione di un unico stato palestinese, capace di autosostenersi, sulle linee del piano saudita del 2002, accettato dalla Lega Araba, che vuole il ritorno dei confini di Israele alla linea ante-1967, salvo aggiustamenti concordati.
L’altro nodo è, se possibile, ancora più complesso. La cosa che spaventa e ferma Israele, più dei problemi di sicurezza con il vicino palestinese, è la prospettiva di un immane trasferimento dei coloni. Pare che i coloni ebrei della Cisgiordania siano 250 mila. È possibile, anzi necessario, che gli aggiustamenti di confine comprendano una parte notevole dei blocchi di insediamenti intorno a Gerusalemme. Anche in questo modo, decine di migliaia di persone rimarrebbero al di là dei nuovi confini.
Ma un numero non definito (svariate migliaia?) rifiuterebbe questi spostamenti. Ciò porrebbe Israele su un pericolosissimo piano inclinato. Lo sgombero di Gaza è stato visto come evento terribile e traumatico – e i coloni erano solo 7000. Agli immani costi politici ed economici di un trasferimento pacifico – e i soldi possono arrivare dall’Europa o da altre fonti – si aggiungerebbe infatti il rischio di una profonda crisi di identità di Israele e del sionismo, con effetti incalcolabili e di lunga durata. Sarebbe la crisi peggiore nella storia dello Stato e del sionismo con possibili sviluppi drammatici: l’esecuzione forzata dello sgombero, la resistenza forse armata, il rischio della disobbedienza dell’esercito e della scomunica di parte del rabbinato. Uno scenario da incubo anche per i laici e i moderati che in Israele desiderano innanzi tutto la pace.
L’alternativa, purtroppo, è lo stallo: il sorpasso demografico dei palestinesi sugli israeliani, il deterioramento della democrazia di Israele, una serie di (piccole?) guerre locali e il rischio di conflitti più ampi, l’isolamento.
Serve un’azione decisa, coerente nel tempo, che non potrà evidentemente dipendere solo dall’esito delle elezioni israeliane del 10 febbraio, ma deve fondarsi su una regia forte e discreta, che possa contare su adeguate risorse finanziarie. Ovvero una regia americana capace e un generoso sostegno europeo e arabo, che possano sfruttare la finestra di opportunità che si è aperta e che potrebbe richiudersi ben presto.