Le insidie di una “guerra elettorale”
Il governo israeliano di Olmert chiude il suo mandato con una seconda guerra, stavolta a sud, in risposta ai razzi di Hamas e al collasso della tregua, ripetutamente violata da entrambe le parti. Una campagna militare, a poche settimane dalle elezioni in Israele, che sembra essere molto condizionata anche dalla politica interna. Non c’è alcun dubbio che l’appuntamento elettorale del 10 febbraio abbia pesato nella decisione di lanciare pesanti attacchi aerei e poi l’offensiva terrestre: Olmert non si ripresenta, ma Kadima (il partito fondato dall’ex primo ministro Ariel Sharon nel 2005 dopo la fuoriuscita dal Likud) deve affrontare i conservatori del Likud dati, fino a pochi giorni fa, come vincenti.
E dentro Kadima, Tzipi Livni, l’attuale ministro degli esteri che ha vinto per un soffio le primarie, è tallonata da Shaul Mofaz, ex capo di stato maggiore ed ex ministro della difesa. Ehud Barak, l’attuale ministro della difesa, deve evitare la prevedibile debacle elettorale dei laburisti. All’opposizione, Netanyahu ha da sempre posizioni intransigenti verso i palestinesi , ma ora deve fare i conti anche con una sua destra interna, guidata da un leader dei coloni, Moshe Feiglin, che misura ogni mossa sull’obiettivo del mantenimento della Cisgiordania, anzi della Giudea e Samaria, dopo l’abbandono di Gaza.
Pesano anche le elezioni palestinesi. Il presidente dell’Autorità palestinese Abu Mazen, eletto nel gennaio 2005, ha un mandato che scade in questi giorni. Egli ha però cercato di ottenere una proroga di un anno, per far coincidere le elezioni del prossimo presidente con quelle del Parlamento palestinese, in programma per il gennaio 2010. La legittimità della proroga, però, è dubbia: Hamas ha la maggioranza dei seggi del parlamento e non l’ha approvata. D’altra parte il parlamento non si è mai riunito a Ramallah, al massimo discutevano in videoconferenza, e 1/3 dei parlamentari è nelle galere israeliane, a vario titolo. Israele teme le prossime elezioni e vorrebbe mettere fuori gioco Hamas, o perlomeno metterla in difficoltà.
La vittoria difficile
Come la guerra contro Hezbollah del 2006, anche questa è iniziata come guerra aerea, contro obiettivi considerati limitati. Ma Gaza è uno dei posti più densamente popolati del mondo e bombardarla è comunque sparare nel mucchio (i bambini costituiscono metà della popolazione).
Israele ha rifiutato le immediate offerte di mediazione per una tregua e a quel punto è scattata la trappola: l’esercito è dovuto entrare a Gaza. Il rifiuto di negoziare ha sicuramente motivazioni elettorali: ogni risultato che non sia una vittoria è per Israele una sconfitta. Ma definire la vittoria è arduo: la cessazione (temporanea) degli attacchi di Hamas? La distruzione (temporanea anch’essa) della sua leadership, in attesa che si ricrei, inevitabilmente, una Hamas 2, più militante ancora o magari – effetto catastrofico – convergente con una nuova generazione di Fatah? Una nuova occupazione? Oppure, e si torna al punto di partenza, una nuova tregua, che tutti in Israele leggerebbero come vittoria di Hamas, e con ragione? Non c’è una sola via di uscita che non riproponga le stesse difficoltà, ma aggravate dal sangue sparso in questi giorni.
Gaza è, per definizione, ingovernabile da attori esterni, come ben sanno gli egiziani, che dall’umiliante sconfitta del 1967 avevano almeno ricavato un risultato positivo: si erano liberati di Gaza. Hamas è nata a Gaza, nel 1987, anche col favore degli israeliani – al governo c’era allora Shamir – che perseguivano con ogni mezzo l’indebolimento dell’odiatissimo Arafat. Tra i vari errori che Israele ha compiuto verso i palestinesi, mantenimento dell’occupazione compreso, questo è stato forse il più tragico.
Il rifiuto israeliano di riconoscere la vittoria elettorale di Hamas del 2006 ha impedito che Hamas fosse messa alla prova, con un elevato rischio di fallimento, sul terreno più duro per un movimento che diventa partito di governo: la quotidianità dell’amministrazione, in una situazione di enormi difficoltà e con il grande problema di non perdere il consenso di un elettorato, in buona parte laico e che aveva in precedenza votato per Fatah. Un rifiuto, quello israeliano, motivato, soprattutto, dalla definizione di Hamas come organizzazione terrorista, e dal suo rifiuto di riconoscere Israele e gli accordi firmati dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp). Gli stessi argomenti che erano peraltro già stati usati proprio contro l’Olp che poi aveva invece firmato l’accordo di Oslo.
La delegittimazione di Hamas, non accompagnata da una politica di vero sostegno ad Abu Mazen, e l’inerzia americana, nonostante Annapolis e le innumerevoli missioni del segretario di Stato Condoleezza Rice, hanno fatto progressivamente incancrenire la situazione.
Hamas e il terrorismo
Si insiste molto sull’identificazione tra Hamas e terrorismo, ma è una visione parziale. Hamas è un movimento politico che usa anche il terrorismo, ma non è la Jihad Islamica, perché ha un’ampia base popolare, che vuole allagare e non perdere, e una leadeship articolata, soprattutto ai bassi livelli, in grado di sostituire chi muore. Punire Gaza per punire Hamas non funziona, anzi ottiene risultati totalmente opposti e la dichiarata intenzione di dare una lezione ad Hamas ha effetti controproducenti e destabilizzanti per l’intera area, il che rende Israele più insicuro di prima.
È diffusa in Israele la convinzione che gli arabi capiscano solo la forza – argomento paradossalmente usato da Hamas contro Israele pochi giorni prima della crisi. L’esercito, per avanzare in aree letteralmente minate, dovrà usare mezzi adeguati, cioè la distruzione di tutto. Hamas non ha la disciplina, le armi, il terreno di Hezbollah, ma questo non la rende meno pericolosa.
Il vero nodo della questione è infatti la Cisgiordania: Israele dice di volere uno stato palestinese, ma in realtà ne vuole due, ben separati, e soprattutto sa che dovrebbe ritirare gran parte dei coloni. La situazione di 40 anni di “fatti compiuti” è però praticamente irreversibile, e avrebbe costi politici, economici, sociali spaventosi. La classe politica di Israele, tutta, non ha la minima idea di come risolvere la questione senza spaccare il paese. Il piano saudita, con ritorno ai confini ante 1967 e aggiustamenti territoriali negoziati, è l’unico piano presentabile, ma nella situazione attuale appare utopistico.
L’altro fantasma che resta sullo sfondo, e di cui si preferisce tacere per la sua potenzialità esplosiva , è il rischio di un peggioramento dei rapporti, in Israele, tra la maggioranza ebraica e la minoranza araba. Anche i gruppi arabi tradizionalmente filosionisti (drusi e beduini) hanno visto drasticamente ridursi i pochi spazi che avevano, il che, agli occhi degli arabi, non può che essere visto come una conferma che Israele tende a concepirsi come stato degli ebrei, in cui le altre etnie sono in una posizione di inferiorità. Punire Gaza, per una teoria transitiva devastante, serve anche a ricordare a tutti gli arabi di casa che Israele difende la sua visione del sionismo e rifiuta, a priori, ogni prospettiva di uno stato binazionale.
È inoltre una guerra dentro la parentesi che si chiuderà il 20 gennaio, con l’insediamento del nuovo Presidente americano. Anche se il presidente Obama e il nuovo segretario di stato Clinton avranno bisogno di un po’ di tempo per formulare priorità e piani, la percezione della politica americana in tutto il Medioriente, e nel mondo, è destinata a cambiare e l’accondiscendenza della presidenza Bush verso Israele potrebbe presto diventare un ricordo. Anche in sede Onu: Susan Rice, nominata ambasciatore presso le Nazioni Unite, e con rango di ministro, è un’altra novità da non sottovalutare dell’amministrazione di Obama.
Le potenzialità dell’Europa
L’Europa è accusata, con qualche ragione, di non sapere esprimere una posizione unitaria, ma è l’unico soggetto internazionale che può usare una delle leve più potenti per promuovere il processo di pace: gli aiuti economici di cui hanno disperato bisogno i palestinesi, ma che sarebbero indispensabili anche a Israele per attuare, ad esempio, un trasferimento, anche parziale, dei coloni. L’Ue può anche offrire, nell’ambito degli accordi di associazione e partenariato, meccanismi di cooperazione che garantiscano Israele, Palestina e altri paesi della regione. Israele è un paese fortemente spaventato, e deve essere rassicurato e garantito, anzi vigorosamente persuaso a una strategia di stabilità di lungo periodo che ponga rimedio agli errori di 40 anni di occupazione, a cui ha corrisposto dal’altra parte una resistenza violenta e sterile.
Il rischio di un collasso graduale è più che mai reale. Avrebbe costi umani terribili: sfinimento dei palestinesi, sfinimento di Israele, sul piano della propria opinione pubblica e del crescente isolamento internazionale, se – come è prevedibile – cambieranno prima i toni e poi i contenuti della politica americana. La guerra di Gaza ha, a volerlo cercare, un solo merito: di aver spinto la questione ai primi posti dell’agenda di Obama, che finora era stata dominata soprattutto da economia, Iraq, Afghanistan, Iran. Oggi, quasi a pari merito, c’è anche Gaza e dintorni.