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Balcani occidentali

I nodi irrisolti dell’indipendenza del Kosovo

1 Dic 2008 - Rodolfo Bastianelli - Rodolfo Bastianelli

Sono trascorsi ormai più di nove mesi dalla proclamazione dell’indipendenza del Kosovo e lo scenario rimane quanto mai incerto. In quest’articolo si prendono in esame gli ultimi sviluppi relativi al quadro politico serbo e alla situazione nella regione, nonché i piani per il Kosovo presentati negli ultimi mesi da Belgrado e le ragioni politiche e giuridiche del ricorso serbo davanti alla Corte Internazionale di Giustizia.

Il quadro politico serbo
La situazione politica interna in Serbia, dove è al governo una coalizione filoeuropea, è profondamente cambiata negli ultimi sei mesi. L’arresto e la consegna al Tribunale penale internazionale (Tpi) d Radovan Karadzic, leader militare dei serbi di Bosnia accusato di crimini di guerra, hanno fatto esplodere i contrasti interni al Partito Radicale, formazione nazionalista e populista. Contrasti che erano peraltro già emersi a settembre sulla firma dell’accordo di associazione con l’Unione Europea: il leader del Partito radicale Tomislav Nikolic era favorevole, la maggioranza del partito nettamente contraria.

Il fondatore del partito radicale Vojislav Seselj, attualmente sotto processo all’Aja per crimini contro l’umanità, ma ancora influente nel partito, si era poi schierato contro l’accordo provocando l’allontanamento di Nikolic e di altri diciassette parlamentari. Il gruppo ha dato vita ad una nuova formazione, il “Partito Progressista Serbo” (Sns), intenzionata ad assumere un atteggiamento più pragmatico verso la comunità internazionale. Come hanno sottolineato tutti i commentatori, il vero vincitore è il Presidente serbo, il filoeuropeo Boris Tadic, che oggi vede notevolmente ampliati i margini di manovra per condurre la sua politica di riforme e di avvicinamento all’Unione Europea.

L’attuale situazione in Kosovo
Il segnale di quanto sia difficile per le istituzioni kosovare consolidare la loro autorità è venuto dalla decisione di Belgrado di convocare lo scorso maggio le elezioni – vinte da candidati radicali e dal poco più moderato alleato Dss – in ventitrè dei trenta comuni del Kosovo dove risiedono cittadini serbi. Il gesto è stato subito definito “illegale” dalla missione Onu (Unmik) e dalle autorità di Pristina, ma ha dimostrato come queste municipalità non intendano tuttora cooperare con il governo kosovaro. I serbi del Kosovo hanno di fatto assunto il controllo dei comuni posti a nord del fiume Ibar, istituendo amministrazioni, servizi di polizia, dogane e tribunali autonomi, svincolati da quelli esistenti nel resto della regione.

Per favorire la ripresa del dialogo, il Segretario generale dell’Onu Ban Ki–moon nel maggio scorso aveva avanzato una proposta per riorganizzare la presenza civile internazionale in Kosovo e consentire all’Unmik di estendere il suo mandato oltre la scadenza temporale fissata dal piano Ahtisaari. La proposta riprendeva in gran parte quanto richiesto due mesi prima dall’allora ministro per il Kosovo del governo serbo, Slobodan Samardzic, il quale aveva proposto alle Nazioni Unite un’amministrazione congiunta Onu-Serbia delle aree a maggioranza serba in sei settori, fra cui polizia, giustizia, controllo delle dogane e delle frontiere, nonché la tutela del patrimonio culturale e religioso ortodosso nella regione.

Nel suo memorandum Ban Ki-moon affermava come l’Unmik doveva svolgere un ruolo di mediatore mentre la missione europea Eulex, la cui legittimità non è stata mai riconosciuta da Belgrado, avrebbe operato sotto la copertura dell’Onu per mezzo del Rappresentante Speciale dello stesso Ban Ki–moon. Inoltre, il piano proponeva di far operare le unità della polizia locale, il Kosovo Police Service (Kps) nei comuni a maggioranza serba sotto l’egida dell’Unmik invece che del governo di Pristina, di istituire nuovi tribunali nelle aree abitati dai serbi, pur rimanendo ferma l’unitarietà del sistema giudiziario, e di consentire ai rappresentanti di Belgrado di partecipare alle riunioni del comitato tecnico di coordinamento presieduto dal Rappresentante speciale del Segretario generale.

Le reazioni delle due parti a quanto proposto da Ban Ki–moon sono state però quantomai diverse. Se infatti il Presidente serbo Tadic ha dichiarato che la Serbia era disposta a discutere con l’Onu delle sei priorità indicate dal Segretario generale dell’Onu, la reazione dei kosovari era stata assolutamente negativa: l’Unmik, hanno sottolineato, avrebbe dovuto continuare a svolgere le sue funzioni solo per un periodo limitato; in caso contrario Pristina avrebbe esercitato il suo diritto di veto. Da parte sua, il governo kosovaro di Hashim Thaçi ha ribadito di non voler riconoscere le amministrazioni parallele istituite dai serbi e di non essere intenzionato a negoziare con Belgrado la formazione di tribunali e servizi di polizia per le aree a maggioranza serba. Thaçi ha aggiunto che la Costituzione del Kosovo verrà applicata uniformemente su tutto il territorio della regione, escludendo però l’uso della forza per incorporare le municipalità serbe.

Il governo formato a Belgrado lo scorso luglio, a detta degli osservatori, potrebbe avere un approccio molto più pragmatico verso il Kosovo. Pur riaffermando la sua assoluta contrarietà all’indipendenza della regione, l’esecutivo di Mirko Cvetkovic ha segnalato la sua intenzione di normalizzare i rapporti con i paesi che hanno riconosciuto il nuovo Stato kosovaro e raggiungere un accomodamento con la missione europea Eulex, se questa permetterà alla Serbia di avere un ruolo nei suoi processi decisionali. Inoltre, il nuovo ministro serbo per il Kosovo, Goran Bogdanovic, esponente dell’europeista Partito Democratico (DS), ha sospeso i membri del “Centro di Coordinamento per il Kosovo” (Cck) designati dal suo predecessore Slobodan Samardzic, con l’obiettivo di rimpiazzarli con personalità gradite al nuovo governo. Secondo alcuni analisti l’esecutivo potrebbe mirare, nel medio-lungo periodo, ad un’intesa che permetta l’inclusione dei comuni a maggioranza serba nel nuovo Stato, a patto però che gli venga attribuita una sostanziale autonomia amministrativa interna.

I piani di autonomia serbi
L’ultimo piano organico di autonomia per il Kosovo presentato dalla Serbia risale al novembre dello scorso anno. Indicato generalmente come “modello Hong Kong”, il piano serbo prende come modello di riferimento il sistema di autonomia attribuito alla ex–colonia britannica che gode di un’ampia autodeterminazione interna lasciando però al governo di Pechino le competenze in materia di difesa e politica estera. Secondo quanto indicato da questo progetto, il Kosovo avrebbe avuto una propria assemblea legislativa, un sistema giudiziario autonomo ed una forza di polizia nonché le competenze esclusive in materia fiscale, economica, culturale ed ambientale, mentre alla Serbia spetterebbe la gestione della politica estera, il controllo delle frontiere e la tutela del patrimonio religioso ed artistico ortodosso presente nel territorio. La regione dovrebbe essere demilitarizzata e al governo di Pristina sarebbe consentito di aprire missioni economiche e commerciali all’estero, nonché il diritto ad avere propri rappresentanti nelle delegazioni serbe incaricate di negoziare gli accordi internazionali.

Recentemente, è poi circolata ufficiosamente negli ambienti diplomatici quella che da alcuni commentatori è stata chiamata la “soluzione taiwanese”. In base a questo progetto, la Serbia ufficialmente continuerebbe a non riconoscere la sovranità del Kosovo e a considerarla ancora una sua provincia, visti anche i riferimenti alla sovranità serba sul Kosovo inseriti nella Costituzione. In pratica, Belgrado prenderebbe atto della secessione accettandone quindi de facto l’indipendenza. Per Pristina questo significherebbe continuare ad avviare relazioni diplomatiche ufficiali con gli Stati che ne riconoscono la sovranità, ma allo stesso tempo non poter essere ammessa all’Onu, dato il veto che verrebbe opposto da Russia e Cina Popolare, mentre i contatti con Belgrado sarebbero tenuti da delegazioni a livello tecnico e non politico che si incontrerebbero in Paesi terzi.

Ma il passo più significativo compiuto dalla Serbia è stata la presentazione di una mozione alla Corte internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite nella quale si chiede un parere, dal valore giuridico non vincolante, sulla legittimità della secessione operata da Pristina. Un eventuale pronunciamento negativo della Corte, i cui tempi comunque non si annunciano brevi, non porterebbe al ritorno della regione sotto il controllo di Belgrado, ma certificherebbe formalmente l’illegalità della dichiarazione di indipendenza. Il ricorso nelle intenzioni di Belgrado avrebbe soprattutto lo scopo di dissuadere i Paesi ancora incerti dal procedere al riconoscimento del Kosovo. Diversi commentatori ritengono però inefficace la mossa serba, che non ha impedito il riconoscimento del Kosovo da parte di alcuni Stati indecisi quali Portogallo, Macedonia, Montenegro e Malesia. Per alcuni esponenti kosovari, come il leader del partito “Ora” Veton Surroi, la mozione dimostra che Belgrado non ha, nella sostanza, cambiato linea politica.