Come vincere in Afghanistan
Nelle discussioni sull’Afghanistan l’attenzione si concentra molto spesso sul “perché bisogna vincere”. Molto raramente ci si domanda invece, “cosa significa vincere”. Nelle guerre asimmetriche del 21° secolo né la domanda, né la risposta sono scontate. A riempire questo vuoto è intervenuto il Rapporto 2008 del Comitato Difesa Duemila, un think tank indipendente che opera dal 2002. Il rapporto è stato anticipato presso il Centro Alti Studi della Difesa (Casd) il 18 novembre e poi discusso a Venezia il 21 nell’ambito dei Colloqui di Venezia della Fondazione Liberal.
L’incertezza che uccide
In Afghanistan, la coalizione internazionale non sta né vincendo né perdendo, ma già solo questo stato di incertezza è un successo per i suoi nemici. Si è diffuso, infatti, un clima di relativo pessimismo: forse anche per reagire a una politica informativa che aveva esagerato con l’ottimismo di maniera, alcuni alti responsabili militari e le stesse Nazioni Unite hanno reso noti rapporti molto più realistici sulla situazione. Qualcuno è arrivato a evocare lo spettro di una sconfitta, ma, probabilmente, questo serve anche a supportare le richieste di rinforzi e/o di mutamenti di approccio strategico.
La situazione non è brillante: la società civile stenta a decollare e il governo centrale afgano è ben lungi dal controllare efficacemente la maggior parte del territorio nazionale. La criminalità si rafforza, soprattutto grazie alla coltivazione, trasformazione ed esportazione illegali di oppiacei, e contribuisce a finanziare terroristi ed insorti. Il tentativo di esportare in Afghanistan metodologie e legislazione di stampo “occidentale” si è rivelato largamente fallimentare.
La volontà espressa dalla Nato e dagli Usa di accrescere il numero e la qualità delle forze combattenti presenti sul terreno potrà contribuire a ridurre ulteriormente le opzioni militari degli avversari, tuttavia non sarà sufficiente per modificare decisamente il quadro strategico complessivo.
Come in tutte le guerre di guerriglia, il successo o l’insuccesso sono determinati più dal quadro politico complessivo e dalla capacità di assicurarsi un consenso sufficientemente largo e stabile della popolazione, che dall’impiego, pur necessario, della forza militare.
Il caso Afghanistan, inoltre, si è rivelato particolarmente difficile, soprattutto perché il paese è poco più di un espressione geografica, in cui il concetto stesso di governo nazionale centrale risulta estraneo alla storia e alla cultura dei popoli che insistono su un territorio grande quanto la Germania, estremamente compartimentato, con contatti interculturali interni labili, quando esistenti, con differenze etniche e linguistiche sostanziali e per certi versi inconciliabili. In un quadro del genere, la sola idea di favorire, per non dire imporre, un’autorità nazionale secondo i criteri di uno stato centralizzato quale concepito secondo gli standard occidentali, è quanto meno aleatoria, se non addirittura velleitaria.
Strategia politica
Vi è, quindi, l’esigenza di una strategia più complessa sulla quale l’Occidente in quanto tale, e i paesi europei in particolare, dovranno trovare un accordo saldo e sostanziale. Alcuni punti di questa nuova strategia indicata dal Rapporto possono essere così schematizzati.
1) Sarà necessario dare concretezza al cosiddetto “comprehensive approach”, realizzando un coordinamento efficace delle varie componenti che ciascun paese può mettere in campo e di cui quella militare è solo una, e paradossalmente non la più importante. Questo significa affrontare con decisione e con tutti i mezzi necessari, finanziari, ma anche operativi, e in tutti i settori (sanità, infrastrutture, sistema giudiziario, sistema produttivo e, in generale, economico), i problemi della società civile afgana, tenendo conto delle sue peculiarità e delle sue potenzialità. Di qui la necessità di un forte coordinamento, al momento quasi del tutto assente, fra i diversi Provincial Reconstruction Teams (Prt), le unità militari speciali impegnate nel provvedere alla sicurezza e alla ricostruzione con risorse che idealmente dovrebbero essere messe in comune e ridistribuite secondo criteri condivisi.
2) Bisogna coagulare intorno ad un indirizzo politico comune quanto meno i paesi fondatori dell’Unione Europea – più la Spagna – in un’ottica che consideri la presenza militare per quello che è, cioè produttrice di stabilità, e battendosi con decisione contro il dualismo tra l’operazione Nato Isaf e quella a guida Usa Enduring Freedom: solo una ferma posizione comune dei paesi citati può indurre gli Usa ad una riflessione su scopi e regole di ingaggio in modo da focalizzare l’azione militare più sulla protezione che sul contrasto attivo e proattivo della guerriglia talebana. Non si dimentichi che ogni azione militare offensiva può malauguratamente avere anche i cosiddetti “effetti collaterali”, causare cioè danni e vittime alla popolazione che, purtroppo, è talora coinvolta nello scontro armato. Il peggiore e più deleterio degli effetti collaterali è quello di creare ostilità verso le forze occidentali e, per converso, simpatia verso gli “insorgenti”.
3) Un impegno diretto delle truppe dei paesi occidentali allo sradicamento delle colture di papavero e alla distruzione dei laboratori sarebbe quasi certamente un disastro strategico, in quanto la Nato e i suoi alleati verrebbero visti come gli affamatori che privano i contadini e la popolazione della loro unica reale fonte di reddito. Una possibile strategia dovrebbe puntare sul sostegno di produzioni alternative, ma anche sulla legalizzazione di una parte della produzione, costituendo un monopolio pubblico del papavero da oppio che compri e tolga dal mercato illegale la maggior parte dell’attività. La difficoltà maggiore di attuazione di questa strategia sembra risiedere nello scarso controllo sul territorio esercitato dal governo centrale e dalle forze della coalizione: cosa invece essenziale per il funzionamento di un sistema di monopolio.
4) È certo che senza una piena e diretta assunzione di responsabilità, anche dal punto di vista militare, da parte degli afgani, non sarà mai possibile una qualsivoglia exit strategy che non sia una fuga ingloriosa e politicamente disastrosa. In quest’ottica deve proseguire ed estendersi lo sforzo per una progressiva e possibilmente rapida “afganizzazione” del conflitto attraverso la crescita delle capacità operative e delle strutture dell’Ana, l’esercito afgano. I risultati conseguiti in questo settore sono incoraggianti: le unità dell’Ana dimostrano giorno dopo giorno di crescere in coesione, in senso di appartenenza e in orgoglio nazionale, componenti essenziali per una efficace operatività. I livelli addestrativi raggiunti sono accettabili e migliorano costantemente grazie anche a tecniche di “mentoring” che si stanno rivelando assai efficaci. Ma è uno sforzo che, soprattutto i Paesi europei, potrebbero sostenere maggiormente.
5) È necessario sostenere il governo pachistano affinché gli “insorgenti” afgani non possano trovare rifugio e sostegno oltre confine. Questo comporta un aiuto politico, economico, finanziario e militare da parte dell’Occidente.
L’importanza dell’Italia
Ci sono precise ragioni che spingerebbero comunque l’Italia ad impegnarsi in Afghanistan: la lotta al terrorismo e alla droga, la solidarietà con gli alleati, l’affermazione dei diritti umani. Ma vi è anche una ragione di carattere strategico: questo intervento è necessario per la nostra stessa sicurezza perché una minaccia che può sembrare lontana, nel mondo globalizzato è in realtà vicina. Ma vi è anche l’esigenza di non disperdere i risultati ottenuti con ormai due decenni di impegno italiano nel mantenimento della pace e che hanno ridato al nostro paese un ruolo adeguato a livello internazionale. Tutto questo continuerà a richiedere tempo e quindi anche l’impiego di importanti risorse sia umane che finanziarie. Ma, se da un lato è auspicabile che l’Italia espliciti in modo più netto le sue scelte e accresca la sua capacità propositiva all’interno della coalizione, d’altro lato la sua efficacia sarà tanto maggiore quanto più il suo impegno sarà percepito come realistico e di lungo periodo, adeguatamente supportato in termini di uomini e di mezzi.