IAI
Energia

Obama, McCain e la chimera dell’indipendenza energetica

28 Ott 2008 - Stefano Casertano - Stefano Casertano

La crisi energetica arroventa il dibattito politico americano: è l’ora dei grandi cambiamenti. Il Presidente democratico installerebbe pannelli solari anche sul tetto della Casa Bianca. Un Presidente repubblicano si metterebbe subito all’opera per attivare decine di centrali nucleari, e per rivitalizzare gli impianti a carbone. Il tutto sarebbe necessario per limitare la dipendenza energetica degli Stati Uniti dall’estero, in modo da ridurre rischi geopolitici all’economia nazionale.

Possono sembrare buone idee. Ma attenzione: il primo paragrafo descrive bene quanto dichiarato da Obama e McCain nel corso del loro ultimo dibattito televisivo, lo scorso 15 ottobre. Ma non sono tratte dal dibattito. Sono la descrizione di quello che Gerald Ford e Richard Nixon hanno provato a fare negli anni Settanta. Anche allora si voleva “raggiungere l’indipendenza energetica”, e l’autarchia produttiva sembrava la soluzione ottimale. A trent’anni di distanza, le idee sembrano cambiate molto poco. Le idee dei vecchi presidenti sono sopravvissute a vari sconvolgimenti, tra la caduta dell’Urss e la rinascita cinese, per approdare tranquille allo studio che ospitava l’ultimo incontro tra i candidati alla Casa Bianca.

Obama vorrebbe sfruttare meglio le energie rinnovabili, e spingere per creare automobili più efficienti. Le aziende petrolifere, poi, dovrebbero impegnarsi a sfruttare circa 68 milioni di acri di terreno che hanno affittato, attualmente non impiegati per la produzione. McCain, punta soprattutto sulla costruzione di 45 nuove centrali nucleari e sullo sviluppo di centrali a carbone pulito. Vorrebbe inoltre rimuovere il blocco allo sfruttamento dei giacimenti petroliferi marini oltre le 3,3 miglia nautiche. Entrambi i candidati sono intenzionati a “eliminare del tutto” le importazioni energetiche “dal Medio Oriente e dal Venezuela”: secondo Obama lo si può fare in dieci anni, secondo Mc Cain in “sette, otto o dieci”.

L’esigenza di differenziare
Si spera che le energie alternative riescano a soddisfare una percentuale sempre maggiore delle necessità americane. Se questo sia effettivamente realizzabile rimando a un interessante libro di Leonardo Maugeri. Ma oggi, la base del sistema energetico è il petrolio, e le idee petrolifere dei candidati hanno molti aspetti problematici.

I “68 milioni di acri” citati da Obama non sono del tutto “vergini”. Nel 2006 hanno ospitato circa 15.000 pozzi esplorativi, che sono saliti a 17.000 nel 2007. Non sono stati trovati bacini di dimensioni tali da giustificare investimenti per l’estrazione.

Quella dei bacini marini potrebbe sembrare una buona soluzione. Le attuali riserve terrestri americane ammontano a 21 miliardi di barili, mentre i principali depositi off-shore raggiungono i 59. Ma l’esplorazione prenderebbe almeno un paio d’anni, e la messa in produzione altri 5: gli Stati Uniti riuscirebbero a produrre al massimo altri 0,2 milioni di barili al giorno, mentre già adesso ne consumano circa 13,5 milioni.

Sembra quindi difficile che Washington possa fare a meno di Medio Oriente e Venezuela. Dall’Arabia Saudita giungono 1,5 milioni di barili al giorno; 0,5 dall’Iraq, in aumento; 0,2 dal Kuwait; 1,4 dal Venezuela. In totale, questi Paesi forniscono circa il 26% delle importazioni americane di petrolio, e il 18% del consumo americano.

C’è di più: le riserve americane hanno una vita residua di appena undici anni. È opportuno privarsi dell’accesso a quelle estere?

Una nuova diplomazia energetica
Obama e McCain vorrebbero puntare su Canada e Messico. Il Canada è già il primo Paese esportatore verso gli Stati Uniti, con 2,5 milioni di barili al giorno; il Messico è terzo, con 1,5. In Messico non ci sono grandi possibilità di sviluppo: la vita residua delle riserve è 10 anni. In Canada, il 95% del petrolio ha forma di “sabbie petrolifere”, costosissime da estrarre.

Affidarsi a un ventaglio ampio di fornitori energetici è un vantaggio strategico. Quando l’uragano Katrina ha colpito le coste Sud degli Stati Uniti nel 2005, il petrolio è stato importato dal Venezuela del burrascoso Chavez; ciò ha consentito di mitigare gli effetti economici dell’uragano.

L’indipendenza energetica sembra esser vista, da qualcuno, anche come soluzione per contenere il prezzo del barile. Ma ci sono molti dubbi che ciò possa funzionare. Il mercato dell’energia è mondiale, e se il prezzo del barile aumenta in Europa, lo fa anche negli Stati Uniti. Nei periodi di crisi l’America è stata tentata più volte dall’isolazionismo. È una tentazione che è riemersa prepotentemente quest’anno, anche se in una versione aggiornata, a vantaggio della propaganda elettorale.

Sia Nixon che Carter, nonostante i loro piani, si trovarono ad affrontare problemi enormi proprio in Medio Oriente. Nixon dovette gestire la crisi dello Yom Kippur, con il corollario della ritorsione anti-americana dell’Opec. Carter vide sbriciolarsi l’equilibrio dell’Iran, con i russi che entrarono in Afghanistan: una seria minaccia alle riserve del Golfo Persico. Chi ne venne fuori fu solo Reagan. Che sfruttò sia risorse domestiche, che internazionali. Rimosse i controlli sui prezzi. Furono attivati bacini in Alaska e Mare del Nord. Bill Casey, il direttore della Cia, fu inviato in Arabia Saudita a convincere il principe Turki del fatto che il barile alto finanziava le pulsioni militari sovietiche in Medio Oriente, ivi compresa l’offensiva in Afghanistan. A tutto questo si aggiunse l’apertura delle contrattazioni sui futures petroliferi, al Nymex, che introdusse nuova liquidità nel mercato delle commodities.

Nel settembre del 1985, il Ministro del Petrolio saudita Yamani annunciò che l’Arabia Saudita avrebbe abbandonato il suo ruolo di “regolatrice dei rapporti produttivi dell’Opec”. La quota saudita esplose da 2,3 milioni di barili al giorno, a oltre 4 alla fine dell’anno. Nel maggio del 1986, il prezzo del barile scese sotto i dieci dollari.

Bacini marini e pannelli solari non sono all’altezza delle grandi iniziative degli anni Ottanta: non c’è vera politica petrolifera senza l’Arabia Saudita. È tempo di una nuova diplomazia energetica, non di isolazionismo.