Tzipi Livni e il futuro di Israele
Tzipi Livni ha ricevuto dal presidente Shimon Peres l’incarico di formare il nuovo governo di Israele. Ha 28 giorni per provarci, con possibile proroga di altri 14. Se non ci riuscisse, Peres potrebbe affidare l’incarico ad altri. In caso di ulteriori fallimenti, sarebbe costretto a convocare le elezioni entro novanta giorni, dunque verso febbraio-marzo 2009.
Se il tentativo della Livni fallisse, rischierebbe di compromettere anche i possibili tentativi successivi, con il rischio di andare incontro ad una singolare costellazione di elezioni che potranno essere molto rilevanti per il futuro della regione e la ripresa del processo di pace. Quest’ultimo, nonostante il recente impegno dell’amministrazione americana, è oggi completamente fermo.
Delle elezioni americane sappiamo tutto, fuorché l’esito. Chiunque vinca il 4 novembre, si creeranno vaste e immediate aspettative, positive o negative, in tutta la regione mediorientale. L’agenda del prossimo presidente ha molte priorità, come l’economia, l’Iraq, l’Afghanistan, il Pakistan, la Russia, l’Iran, la Cina. Solo dopo, Israele e Palestina, e gli interessati dovranno prenderne atto.
Il lungo iter elettorale
Lo snodo successivo saranno le elezioni municipali di Israele, dell’11 novembre. Si eleggerà il successore del sindaco di Gerusalemme, Lupolianski, che non dovrebbe ripresentarsi per una sorta di rotazione interna alla comunità ultra-ortodossa. Gerusalemme ripropone, esasperate, tutte le tensioni della politica e della società israeliana. Sinistra contro destra, ma soprattutto laici contro religiosi, ortodossi e ultraortodossi, in costante crescita. I palestinesi di Gerusalemme Est con diritto di voto alle elezioni municipali da molto tempo si astengono in massa e ciò è di per sé un fattore rilevante. Poi ci sono i sefarditi-orientali, abbastanza coesi, contro aschenaziti, profondamente divisi. Elezioni locali, in teoria, ma in realtà tutti votano – o non votano – anche per dire la loro sull’assetto della città in ogni possibile accordo di pace. A Gerusalemme si fanno così le prove generali di intese, sgarbi, manovre per le elezioni politiche, soprattutto se anticipate.
L’altro snodo elettorale, ancora più complesso e incerto, è quello palestinese. Il mandato quadriennale del presidente Abu Mazen, eletto nel gennaio 2005, scade a inizio 2009 – quindi in piena coincidenza con la probabile campagna elettorale in Israele, che pone fra l’altro inevitabili questioni di sicurezza.
In verità l’Autorità Palestinese ha emendato la costituzione per prorogare il mandato di Abu Mazen fino al gennaio 2010, e far così coincidere le elezioni presidenziali con quelle del Parlamento, eletto nel gennaio 2006. Va da sé che Hamas non è assolutamente d’accordo sulla proroga e, in ogni caso, Abu Mazen non si ripresenterebbe. Il che apre un ampio dibattito, compreso un tema molto caldo: Marwan Barghouti, oggi il leader più popolare di Fatah, si presenterà? Vedremo un presidente palestinese ospite delle galere israeliane? Barghouti oggi sembra essere l’unico in grado di contrastare politicamente Hamas, ma se Israele dovesse farlo uscire di prigione rischierebbe di “neutralizzarlo”.
In ogni caso il 2009 sarà un lungo anno per i palestinesi, e le manovre elettorali di Fatah ed Hamas, oltre ad essere basate sul confronto interno, saranno inevitabilmente condizionate da Israele (che già rese assai difficile le elezioni del 2006, con il paradossale effetto di favorire Hamas) e in parte dal risultato americano. Non bisogna infine dimenticare che a queste elezioni assistono, in prima fila e con qualche inevitabile invasione di campo, tutti i vicini, da Hezbollah, alla Siria, alla Giordania e all’Egitto, più Al-Jazeera.
La possibile combinazione di tutti questi fattori è un’equazione di sole incognite, con una sola ragionevole certezza: nessuno si sentirà abbastanza forte, sul fronte interno, e appoggiato, su quello internazionale, da compiere passi concreti verso una ripresa delle trattative.
Tra divisioni e incertezze interne
In questo contesto il primo ostacolo per la Livni sarà mantenere unita la coalizione di governo. Kadima è spaccato: era il partito-creatura di Ariel Sharon, ex-primo ministro, e con Ehud Olmert, l’attuale primo ministro uscente, non ha mai acquistato un’identità definita. Inoltre le primarie tra Livni e Shaul Mofaz, ministro dei trasporti, si sono risolte con una vittoria così esigua da essere politicamente discutibile, e in ogni caso Mofaz non sembra per niente disposto ad accettare un ruolo di secondo piano.
Il leader laburista Ehud Barak è preso tra la tentazione di ostacolare Livni e il timore che, in caso di elezioni, i sondaggi che danno i laburisti in caduta libera siano pienamente confermati dalle urne. Barak tratta con il leader del Likud, Benjamin Netanyahu, e sicuramente ha, in comune con quest’ultimo, l’interesse a far fallire la Livni. O subito, quindi con nuove elezioni, o dopo, permettendo la creazione di un governo debole che arrivi alla naturale conclusione della legislatura, nella primavera del 2010. Per giocare in prima persona quando il gioco si farà davvero duro.
Le difficoltà di Livni non finiscono qui. Deve fare un suo programma di governo, e venire allo scoperto su molti temi. E poi provare a ricompattare la coalizione che ha sostenuto Olmert o a operare sostituzioni efficaci.
Netanyahu chiede, a ragione, elezioni immediate, contando anche sull’emorragia di ritorno di quella parte del Likud che seguì Sharon dentro Kadima. I sondaggi lo danno vincente, e non farebbe fatica a formare una coalizione. Ma un Kadima dimagrito avrebbe ironicamente un baricentro più a sinistra, visto che un ritorno a casa degli ex-laburisti appare più difficile.
Obiettivo 2010
Livni ha dalla sua alcune carte, ma può usarle più facilmente in futuro che oggi. Ha una solida reputazione di onestà e impeccabili credenziali di destra, ma anche una lunga esperienza come titolare del ministero degli esteri. È entrata in politica tardi, nel 1999, ma è diventata ministro presto, nel 2001 con Sharon. La si paragona, a torto, a Golda Meir – che entrò in politica giovanissima e divenne primo ministro per designazione dell’apparato socialista. La sua esperienza di spia intriga, ma molti dimenticano che Yitzhak Shamir, già capo del Lehi (organizzazione armata sionista nella Palestina mandataria), diresse per 10 anni importanti operazioni del Mossad, finché non si ritirò a vita pubblica per diventare poi uno dei primi ministri del Likud più rigidi nella storia di Israele. L’obiettivo di Livni è formare il governo e andare alle elezioni nel 2010. Alleati e avversari vogliono impedirglielo. Ma Livni è giovane e, se fallisse, le basterebbe rimanere validamente sulla scena pubblica per diventare un punto di riferimento alternativo alle manovre politiche degli altri. Le gioverebbe anche un più disinvolto rapporto con l’opinione pubblica, ma questa è un’arte che può imparare, come pure quella di manovrare e delegare.
Non ci sono, al momento, sulla scena altri politici emergenti e la crisi della sinistra non pare recuperabile in tempi brevi. I prossimi confronti elettorali saranno quindi un duello interno alla destra, fra il Kadima di Livni e il Likud di Netanyahu. Il 2009 si preannuncia quindi come un anno cruciale per israeliani e palestinesi. Ma molto importante anche per noi.