Perché una Russia debole fa più paura di una Russia forte
Dobbiamo credere alla Russia quando dichiara che le esportazioni di gas non sono un’arma di ricatto politico? L’Italia è partner di Mosca in alcuni tra i progetti più significativi di espansione delle pipeline di trasporto: alle condotte del “Blue Stream”, si aggiungeranno presto quelle del “South Stream”, una tra le principali iniziative che connetteranno i campi estrattivi russi al continente europeo. Questo legame di ferro e gas spaventa più di un analista: il nostro Paese starebbe scoprendo il fianco a un alleato come la Russia che, prima o poi, potrebbe impiegare a suo vantaggio il rapporto di dipendenza energetica.
Niente paura?
Il Presidente di Eni Roberto Poli si è più volte pronunciato per rassicurare gli italiani: ha definito “eccessiva” la paura verso il gas russo e verso l’espansionismo di Gazprom, l’azienda nazionale energetica: “È chiaro che, volendo emergere, la Russia utilizzi la sua migliore società [Gazprom, ndr] come piattaforma di espansione”. D’altra parte i critici ricordano che un Paese come l’Ucraina, dopo aver scelto un governo filo-occidentale, si è vista recapitare da Mosca bollette di gas molto più care rispetto a un tempo: il rischio sarebbe reale. Ma chi ha ragione?
Per stabilire da che parte orientarsi, bisogna stabilire in cosa consisterebbe il “rischio” paventato dalle fazioni più critiche. Se ne possono considerare diversi tipi.
La Russia potrebbe tentare di impiegare il suo gas per far leva sui governi nazionali, e stimolare delle politiche locali più favorevoli a Mosca. La storia non aiuta i fautori di questa teoria: i sovietici non sono mai riusciti a impiegare con successo l’arma energetica verso gli alleati socialisti. Sia Tito che Mao, quando disallinearono la Jugoslavia e la Cina dai comunisti russi, dovettero sottostare a un’interruzione immediata delle forniture petrolifere, ma a quanto pare non pensarono mai di tornare indietro.
A ridosso della crisi di Suez del 1956, Enrico Mattei guidò l’Eni, e con essa tutta Italia, in una corsa precipitosa verso il petrolio di Mosca. In due anni le importazioni raddoppiarono a un milione di tonnellate, fino a 3 milioni nel 1959: l’Italia divenne la principale importatrice di barili russi, più di qualsiasi Paese sovietico. Ma il discorso energetico influì ben poco sulla diatriba nazionale tra Pci e Dc: il petrolio russo giungeva in Italia senza gadget politici di sorta.
Quando si parla della “crisi del gas” tra Mosca e Kiev nel 2006, si potrebbe avere una visione più completa della situazione ricordando che per l’Ucraina passa circa l’80% del gas destinato all’Europa, e che questo punto di forza è stato ampiamente speso dal governo filo-occidentale contro i negoziatori russi. Prima dello scontro diplomatico, l’Ucraina pagava un prezzo ultra-sussidiato per il gas: 50 dollari per migliaio di metri cubi. La nuova pretesa di Mosca era di 230 dollari, ma alla fine si è arrivati a un compromesso fatto di complicate perequazioni: 95 dollari. A capo del governo di Kiev ci sono ancora personaggi non allineati con la Russia.
Se quindi il fattore politico sembra avere importanza limitata, forse il vero rischio potrebbe essere meramente economico: i Paesi che si allacceranno a Mosca con i nuovi gasdotti, dovranno sottostare alle richieste di prezzi sempre più alti.
Questo assunto, tuttavia, non considera che la costruzione di condotte per il gas, opere costose e complicatissime, implica che tra i produttori e gli acquirenti ci sia un’unità d’intenti sancita da contratti commerciali strettissimi. Le aziende nazionali che investono in simili infrastrutture pretendono accordi di fornitura anche trentennali, a parametri fissi. Anche la Russia, poi, partecipa con i capitali nazionali ai progetti, e ha tutto l’interesse affinché siano profittevoli. A ciò va aggiunto che, rispetto al gas di Mosca, esistono ancora delle alternative, prima fra tutte il gas liquido importato via nave . La crisi del gas ucraino ha danneggiato anche Mosca, intaccando la reputazione di Gazprom come partner affidabile e spingendo molti governi nazionali a muoversi in fretta per mettere in piedi rigassificatori e complementi vari.
Il punto essenziale è che la Russia ha bisogno dell’Europa, tanto quanto l’Europa ha bisogno della Russia. L’economia russa Mosca risente di tutti i difetti dei sistemi troppo dipendenti dalle materie prime: inflazione strisciante, polarizzazione sociale, industria in stagnazione. Un calo brusco degli introiti da esportazione di materie prime potrebbe essere micidiale, e spingere l’intero Paese al collasso civile. L’economia nazionale è più piccola di quella olandese in termini assoluti, mentre il reddito pro-capite è pari a quello del Botswana. Mosca non ha interesse a perdere introiti petroliferi.
La Germania e l’Italia importano rispettivamente il 39 e il 31% del gas che consumano dalla Russia, con 2.200 miliardi di metri cubi l’anno. Se questo dato sembra preoccupante, va ricordato che esso rappresenta circa un terzo del gas esportato dalla Russia, e che quindi Roma e Berlino controllano un flusso di cassa abbastanza significativo da influenzare Mosca.
I limiti della possibile minaccia militare
L’ultimo rischio generale che può essere considerato è di tipo militare. In alcune fasi storiche, la Russia ha approfittato della bonanza energetica per intraprendere varie operazioni militari. L’invasione dell’Afghanistan del 1980 era stata ispirata sia dall’uscita americana dall’Iran sia dalle preziose risorse finanziarie piovute sulle casse del Cremlino con il boom petrolifero dell’anno prima. Già nel 1973, il barile schizzato alle stelle aveva ispirato una serie di iniziative di allineamento verso Paesi attorno al Medio Oriente, tra cui lo Yemen, la Siria e l’Egitto. L’irruenza del recente intervento in Georgia sarebbe dovuta al vigore finanziario garantito dalle risorse petrolifere. Per i più critici, quindi, foraggiare le pulsioni espansionistiche russe con i soldi delle bollette per il gas non è desiderabile.
Eppure, questa equazione tra ricchezza energetica e interventismo militare è tutto da dimostrare. La prima operazione in Cecenia, nel 1994, è avvenuta in un periodo in cui le casse statali russe erano vuote. Anche la seconda, nel 1999, è avvenuta in periodo di gravi ammanchi finanziari. La Russia militare si gestisce agendo sulla politica; il ruolo del gas in questo ambito è molto più ridotto di quanto non si pensi.
Già ai tempi della prima espansione petrolifera russa, negli anni Cinquanta, le attività dei Paesi acquirenti erano guardate con sospetto da Washington. Dall’Eni, Giorgio Ruffolo veniva inviato spesso a incontrare rappresentanti Nato per tranquillizzarli sulla situazione, con una Russia che nel 1962 copriva il 38% del fabbisogno petrolifero italiano. Alla pratica nostrana si erano uniti anche altri Paesi: tre quarti del petrolio islandese, un quarto di quello austriaco, due quinti di quello greco e tre quarti di quello finlandese provenivano da oltre cortina.
A metà anni Ottanta, l’Urss a corto di fondi provò un piano dell’ultima ora per sviluppare un nuovo gasdotto, l’Urengoi-6, i cui proventi avrebbero potuto dare una boccata d’ossigeno alle casse nazionali in pieno declino. Reagan provò a bloccare il progetto in tutti i modi, ma non perché temesse l’espansionismo sovietico: voleva solo farli stare a corto di valuta pesante. Il piano del Presidente americano, peraltro, funzionò a meraviglia, ritardando la costruzione di un paio d’anni.
Eppure, la tentazione di credere che al gas russo di oggi siano legate pretese politiche è forte. Questo dipende probabilmente dal retaggio diplomatico sovietico: non sempre quello che veniva dichiarato dai portavoce del Cremlino, corrispondeva a ciò che veniva deciso dietro le fredde mura dei palazzi del potere. La tradizione venne interpretata magistralmente dal Ministro degli Esteri di Stalin, Vjaceslav Molotov, il quale dichiarò candidamente che “non abbiamo una vera strategia in politica estera: quando possiamo, attacchiamo; e quando dobbiamo, ci difendiamo”. Poco importa che nel frattempo la Russia decidesse di imporre un embargo su Berlino Ovest, o di installare governi socialisti in tutta l’Europa orientale. Ma ancora oggi alla Russia non si crede, neanche se dice la verità.
Il vero rischio per chi acquista il gas da Mosca è che le forniture vengano interrotte per problemi economici reali della Russia. Se l’industria energetica nazionale non tiene il passo dell’innovazione tecnologica, la produzione potrebbe calare, e con essa le possibilità di approvvigionamento per chi acquista. Una Russia debole fa più paura di una Russia forte.