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Politica estera Usa

Quali opzioni per la politica americana in Medioriente?

8 Ago 2008 - Emiliano Alessandri - Emiliano Alessandri

Una lettura sbrigativa del dibattito sul futuro della politica estera americana in Medio Oriente potrebbe erroneamente indurre a concludere che due sono le grandi alternative in campo: da un lato, la visione di Obama che ruota attorno al ritorno alla diplomazia e al rilancio del principio multilaterale; dall’altro, la linea McCain che ribadisce l’importanza di una sostenuta presenza militare USA nel teatro iracheno e la prosecuzione della “guerra al terrore”.

Questa dicotomia è fuorviante non solo perché non coglie le importanti sfumature e le tante convergenze esistenti nelle piattaforme elettorali dei due candidati – entrambi, ad esempio, fanno appello all’Europa per un maggior sforzo bellico e di ricostruzione in Afghanistan – ma anche, e soprattutto, perché essa assume che poco o nulla sia cambiato durante gli otto anni dell’”era Bush”. A ben guardare, invece, per lo meno dal “surge” avviato in Iraq nel 2007, si è assistito ad un importante ri-orientamento della politica mediorientale degli Stati Uniti che, anche se ancora parziale ed estremamente incerto nei suoi esiti, sta oggi cominciando a mostrare i primi risultati. Tale ri-orientamento va nella direzione di un uso più sistematico dello strumento diplomatico, ma sembra anche volto a ribadire la necessità di una presenza militare americana ancora massiccia nella regione: sicuramente in Afghanistan e, per alcuni anni almeno, anche in Iraq.

“Exit Strategy” dall’Iraq: non piu’ una semplice ritirata
Per quanto Obama insista sul fatto che Bush e McCain non abbiano una strategia per uscire dal pantano iracheno, ma solo una per continuare a restarci senza infangarsi troppo, il “surge” guidato dal Generale Petraeus tra il 2007 e il 2008 e’ stato molto di più che un espediente tattico-strategico per ridurre il numero dei caduti americani sul campo. Come nota con lucidità Kenneth Pollack, autore di un recente libro sulla politica americana nella regione, la varie politiche che l’amministrazione Bush ha attuato sotto l’etichetta del “surge”, hanno avuto come effetto complessivo quello di porre rimedio a molti dei gravi errori che le forze di occupazione avevano compiuto negli anni immediatamente seguenti all’invasione: dall’avventato smantellamento delle istituzioni dello stato iracheno, all’imprudente e miope marginalizzazione di alcune componenti etniche-religiose.

Nonostante l’estrema fluidità ed incertezza che la caratterizzano, sottolinea Pollack, e’ come se la situazione presente in Iraq riproponesse le grandi questioni aperte dall’intervento militare del 2003: come garantire sicurezza e stabilità in un paese complesso e profondamente frammentato. E’ in questo quadro, ben diverso da quello dominato dallo spettro del caos più completo di appena un anno e mezzo fa, che si può pensare ad una strategia di ritiro.

La necessità del ritiro delle truppe americane è apertamente riconosciuta dalle autorità irachene – a cominciare dal primo ministro Al-Maliki – ed è stata accettata in linea di principio dalla stessa amministrazione Bush, la quale si è anche detta pronta a considerare un orizzonte temporale per la riduzione del contingente militare nel paese. Se McCain dovrebbe comprendere che nel nuovo contesto aperto dal “surge” che egli stesso ha appoggiato, la prospettiva di un’occupazione a tempo sostanzialmente indeterminato è sempre meno giustificabile, Obama da parte sua dovrebbe riconsiderare la sua proposta di ritiro delle truppe dal paese già dalla fine del 2009, che non appare molto realistica.

Le elezioni provinciali irachene del prossimo autunno e quelle nazionali del 2009 saranno test cruciali per la tenuta delle nuove istituzioni. La presenza militare americana come forza neutrale e di garanzia è essenziale per evitare che i “sabotatori” del nuovo Iraq, nonché eventualmente gli sconfitti delle elezioni, trascinino di nuovo il paese nel baratro della guerra civile. Il ritiro che vari analisti ed esperti ora caldeggiano, dunque, è molto più graduale di quello previsto da Obama, il quale ha proposto, invece, che venga completato non prima della fine del primo mandato del prossimo presidente.

Re-engagement in Medio Oriente: diplomazia e uso della forza
Il Medio Oriente rimarrà con ogni probabilità il focus della politica estera americana dei prossimi anni, ben oltre i quattro anni del prossimo mandato presidenziale. Il progressivo ritiro dall’Iraq libererà, anzi, forze e risorse da destinare a nuove priorità regionali. Anche in questo caso, tuttavia, i due candidati presidenziali dovrebbero valutare in modo non dogmatico il da farsi, evitando la facile ma fuorviante dicotomia diplomazia/uso della forza, e partendo dalle importanti sviluppi di questi mesi.

Il caso più eclatante di ri-orientamento della politica mediorientale di Bush è ovviamente l’Iran. Se fino ad appena due anni fa gli Stati Uniti erano apertamente contrari a negoziati tra Teheran e gli alleati europei, di recente il governo USA ha deciso di collaborare a pieno titolo con il resto del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e con la Germania nella formulazione di una proposta negoziale da sottoporre al presidente iraniano. Con una mossa anche di rilevanza simbolica, il Segretario di Stato Condoleezza Rice si è poi persino risolto ad inviare il sottosegretario William Burns all’incontro del cosiddetto “5+1” con le autorità iraniane tenutosi alla fine di luglio scorso a Ginevra, segnalando quindi la disponibilità ad un ritorno ad un dialogo diplomatico anche diretto con l’Iran. Anche sul fronte del conflitto israelo-palestinese l’amministrazione americana ha mostrato negli ultimi tempi un attivismo in contrasto con il basso profilo tenuto durante il primo mandato di Bush.

Obama ha già ampiamente chiarito che il ritiro dall’Iraq sarà accompagnato da un rilancio deciso e rapido dello sforzo bellico, oltre che di ricostruzione civile, in Afghanistan, che resta a suo parere il vero anche se trascurato campo di battaglia della guerra contro Al-Qaeda. Il candidato democratico si e’ impegnato ad aumentare il numero di truppe sul campo – almeno due nuove brigate. Su questo sembra esserci consonanza con McCain. Entrambi i candidati, poi, chiedono un contributo militare più consistente da parte europea, attraverso un potenziamento dei contingenti NATO, e un impegno rafforzato nella dura lotta contro la corruzione dilagante nelle fragili strutture di governo del paese.

Gli sviluppi degli ultimi anni, tuttavia, hanno chiaramente dimostrato che nessun vero progresso e’ possibile in Afghanistan se non verrà “sanata” l’ampia area di confine con il Pakistan, dove con tutta probabilità trovano rifugio non solo alcuni gruppi insurrezionali ma i vertici stessi di Al-Qaeda. In questo senso, il ri-orientamento della politica di Bush si è fermato a metà strada poiché l’appoggio alla delicata evoluzione politica in corso nel paese soprattutto dopo l’assassinio di Benazir Bhutto del dicembre scorso, non è stato accompagnato da una pressione per ottenere l’uscita di scena dello screditato presidente Musharraf, contro cui ora e’ minacciata una procedura di impeachment. La fedeltà che Musharraf ha promesso agli Stati Uniti nella lotta contro Al-Qaeda non ha portato in questi anni a risultati significativi né nel paese né tanto meno nel contrasto alle infiltrazioni terroristiche in Afghanistan. Anche in questo caso, dunque, la dicotomia diplomazia-uso della forza dovrà essere evitata, e il prossimo presidente degli Stati Uniti dovrà essere pronto ad impegnare più forze militari in Afghanistan e al contempo a modificare e rendere più aggressiva la sua diplomazia verso il Pakistan. Considerando, eventualmente, anche possibili interventi diretti contro conclamati gruppi terroristici nel paese.

Il Medio Oriente alla fine dell’“era Bush” è tutt’altro che una regione pacificata, ma proprio perché la situazione sembra estremamente fluida, ogni ipotesi di soluzione univoca (engagement o ritiro), o dicotomica (uso della forza o diplomazia) appare per forza di cose inadeguata perché non coglie Nè gli sviluppi né le diversità di contesto che caratterizzano le varie questioni aperte nell’area. Il ri-orientamento della politica mediorientale avviato dall’amministrazione Bush negli ultimi due anni rimane incompleto ma sta sortendo alcuni effetti evidenti. Il prossimo presidente, chiunque esso sia, sarà chiamato ad un approccio non dogmatico, e in ogni caso capace di proseguire sulla strada di un cambiamento che, nei fatti, è già cominciato.