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Dopo il no irlandese

L’Europa fra Dublino e Lisbona

24 Giu 2008 - Riccardo Perissich - Riccardo Perissich

Per andare dall’Irlanda al Portogallo bisogna attraversare alcuni dei bracci di mare notoriamente più pericolosi ed infidi della costa atlantica dell’Europa. Sul naufragio della nave che avrebbe dovuto portare la ratifica del trattato di Lisbona si sono innestati almeno tre dibattiti, fra loro correlati, ma distinti.

Due soli sbocchi alla crisi
Il primo riguarda la possibilità di salvare il trattato procedendo con tutte le altre ratifiche, per poi esplorare con l’Irlanda una soluzione politica che permetterebbe un nuovo voto senza che ciò comporti un rinegoziato sulla sostanza. È la soluzione preconizzata dalla maggioranza dei responsabili europei. Si tratta di un atteggiamento logico e costruttivo; in quanto tale va sostenuto, a patto che non si trasformi in accanimento terapeutico. Non so quanto questa strada sia percorribile, né quali potrebbero essere i termini di una soluzione che permetterebbe agli irlandesi di tornare al voto.

Alcuni analisti si sono lanciati in generosi tentativi di studiare soluzioni che permetterebbero di salvare il trattato anche senza la ratifica irlandese. Per quanto assurda la situazione che si è creata e nonostante la comprensibile irritazione, dobbiamo lucidamente ammettere che nell’attuale contesto dell’Europa a 27 ci sono nell’immediato due soli possibili sbocchi alla crisi: convincere gli irlandesi a votare di nuovo, o restare col trattato di Nizza. Non resta quindi che affidarsi alla saggezza (?) degli addetti ai lavori. Mi limiterò solo ad aggiungere che concordo anche con chi ritiene che fino a quando non sarà fatta chiarezza sul trattato è bene soprassedere a ulteriori allargamenti.

Le responsabilità dei governi
Il secondo dibattito parte dalla constatazione, su cui è difficile dissentire, di una “lontananza dell’Unione europea dalle preoccupazioni dei cittadini”. Tuttavia quando la frase è pronunciata dai responsabili governativi assistiamo ad una mancanza di rigore concettuale che sarebbe solo desolante se non fosse anche il segno di una manifesta malafede.

I trattati attuali contengono già una notevole dose di sopranazionalità, ma l’Unione europea, piaccia o no, è ancora sostanzialmente governata dagli stati: con decisioni spesso unanimi, o prese a larga maggioranza. Chi dovrebbe quindi spiegare l’Europa ai cittadini se non i governi stessi? Questi si affannano invece a descrivere “Bruxelles” come un’entità lontana, metafisica e comunque estranea. In questo modo possono liberarsi di fronte alla propria opinione pubblica di qualsiasi responsabilità per decisioni difficili o sgradite nell’immediato.

Il trattato è giustamente criticato per essere complicato e quasi incomprensibile: chi lo ha reso tale se non i governi che lo hanno negoziato? Essi si guardano poi bene dallo spiegare quali decisioni “avvicinerebbero l’Europa ai cittadini”. O meglio citano solo quelle che sarebbero a loro gradite, senza spiegare quando e perché sono destinate a scontrarsi con l’insormontabile opposizione di altri paesi. Così per i francesi l’Europa dovrebbe essere più dirigista e protezionista, per i britannici più liberale. Chi spiegherà poi che la soluzione può essere solo il frutto di una paziente mediazione multilaterale, necessariamente ambigua e complicata? Silvio Berlusconi ha denunciato il grave difetto di un’Europa che non ha ancora una politica estera e un esercito comune, dimenticando che il timore per la propria neutralità è certamente stato uno dei fattori che ha condotto al voto irlandese. Quando poi questa massiccia disinformazione è data in pasto ad una procedura referendaria, non bisogna sorprendersi se hanno buon gioco coalizioni di populisti e di estremisti di destra e di sinistra.

Sul referendum come perversione della democrazia mi sono già espresso in altra sede. Basterà qui ricordare un’altra menzogna largamente diffusa. Non è vero che ogni referendum produce risultati negativi. Spagnoli, lussemburghesi hanno approvato la costituzione o il trattato con buone maggioranze: un totale di cittadini non dissimile dai paesi che hanno espresso voto contrario.

Referendum sui trattati: bocciature a costo zero
Chi promuove o aderisce al rigetto di un referendum sull’Europa sa che si tratta di un’operazione senza rischi. Il paese non paga alcun costo immediato; il governo in carica non cade, ma ne esce indebolito e quindi non può fare altro che farsi portavoce di chi ha rifiutato la sua politica. I governi che hanno seminato vento raccolgono quindi tempesta. Fino a quando questo atteggiamento non cambierà, sarà difficile attendersi un diverso comportamento dell’opinione pubblica. Del resto i governi e le forze politiche moderate, maggioritari in tutti i nostri paesi, sembrano non rendersi conto che, oltre a fare un danno alla costruzione europea, alimentano un’ondata di populismo che può minare le basi stesse delle nostre democrazie.

L’altro elemento che determina la disaffezione dell’opinione pubblica è la crescente distanza fra annunci e risultati. I trattati di Roma, il mercato unico, il trattato di Maastricht nella sua parte monetaria contenevano obbiettivi molto ambiziosi, ma anche il percorso e gli strumenti per realizzarli. Hanno suscitato vive opposizioni, ma anche vasti consensi. Negli ultimi anni si sono moltiplicati gli obbiettivi più disparati, privi però di strumenti credibili per realizzarli. Il risultato è stato che chi temeva “troppa Europa” si è mobilitato e chi avrebbe voluto “più Europa” è rimasto comprensibilmente scettico.

Questa considerazione ci conduce al terzo dibattito: quello secondo cui gli europei sono stanchi di discutere di istituzioni e vogliono risultati concreti. Questa teoria è in parte fallace poiché per ottenere risultati non basta una generica volontà collettiva, ma sono necessari strumenti adeguati: il consenso fra stati sovrani è per definizione fragile. Senza voto a maggioranza e senza deleghe di responsabilità le decisioni non possono intervenire in modo durevole e poi difficilmente saranno applicate in modo corretto. Contiene però anche una dose di verità. Avendo deciso, già negli anni ’50 di non porre il problema di un ordinamento federale, ma avendo puntato su un’integrazione graduale, abbiamo costruito un sistema in cui il rafforzamento delle istituzioni può essere proposto e capito solo se è al servizio di un obbiettivo concreto. Oggi l’Europa ha degli obbiettivi teoricamente ambiziosi – diventare più competitiva, reagire alla globalizzazione, avere più peso sul piano internazionale, affrontare le nuove sfide energetiche e ambientali, – ma non riesce a tradurre questi obbiettivi in progetti articolati e condivisi.

Verso l’Europa a due velocità?
Dovremmo quindi trarre da queste vicende, referendarie ma non solo, un insegnamento che deve essere spiegato con chiarezza all’opinione pubblica. Il trattato di Lisbona è il massimo che riesce ad esprimere l’attuale Unione di 27 paesi. Se entrerà in vigore introdurrà nel sistema alcune innovazioni molto utili, ma le vicende che hanno accompagnato questa dolorosa ratifica dovrebbero indurci a capire che i risultati saranno molto più lenti e modesti degli obbiettivi proclamati. Chi vuole obbiettivi più ambiziosi o un’integrazione più spinta, deve sapere che ciò è possibile solo fuori dal quadro attuale, probabilmente con la partecipazione di un numero di paesi più ridotto. Molti sono oggi convinti che questa sarà, prima o poi, una scelta obbligata. Mancano però oggi le condizioni perché sia concretamente praticabile. Da un lato perché nell’immediato la priorità sarà giustamente data dalla necessità di preservare l’esistente. Dall’altro perché Francia e Germania – i due paesi chiave di questo scenario – devono ancora compiere un difficile percorso di maturazione. Ciò non toglie che gli analisti dovrebbero dare su questo punto il loro contributo di idee e di riflessione.