Siria, Israele e Libano: verso una ricomposizione regionale?
Il 21 maggio scorso Israele e Siria hanno reso noto che da circa un anno conducono colloqui nell’intento di concludere un trattato di pace. I colloqui si svolgono in Turchia e sono indiretti, cioè hanno luogo attraverso un mediatore ufficiale del governo turco che fa la spola fra le due delegazioni, insediate in luoghi separati. Nei mesi scorsi la Siria aveva fatto trapelare qualche notizia di questi dialoghi, e la stampa, specialmente in Israele, ne aveva parlato. Tuttavia è significativo che ora, di comune accordo, i due paesi ne abbiano dato pubblica conferma. Tutti i precedenti tentativi di risolvere il conflitto tra Siria e Israele fino ad oggi sono falliti. Cosa accadrà questa volta?
Perché proprio ora
Due giorni prima dell’annuncio, l’ analista israeliano Shmuel Even, ha elencato le opzioni e i rischi che un accordo con la Siria pone ad Israele, sintetizzando un dibattito che nel paese non è mai cessato. Già da un pezzo le alture del Golan, conquistate da Israele nel 1967 e poi annesse al territorio israeliano, non sono più l’oggetto centrale del contendere. Israele è disposto a dismettere il Golan e riconsegnarlo a Damasco se arriva a credere che questo conduce ad un allentamento dell’alleanza fra la Siria e l’Iran e, quindi, la Siria e il Partito di Dio in Libano. Il ritorno del Golan è comparativamente più importante per la Siria di quanto sia la sua riconsegna per Israele, perché ciò riguarda direttamente la legittimazione politica del regime degli Assad.
Tuttavia, per la Siria è oggi forse ancora più importante ristabilire un rapporto normale con gli Stati Uniti, poiché – almeno così si pensa a Damasco – ciò consentirebbe un’intesa sul Libano e, nel più breve termine, la remissione della minaccia posta dal tribunale Hariri. La Siria, infatti, intende il negoziato indiretto mediato dalla Turchia solo come prologo di un negoziato diretto mediato dagli Stati Uniti. Quella, agli occhi dei siriani, è la sede in cui sarebbe possibile e vantaggioso raggiungere un pacchetto di compromessi e garanzie.
Naturalmente tutto ciò non è scontato e, a quanto se ne sa, il prenegoziato patrocinato dai turchi non ha eliminato ostacoli e incertezze. Perché, allora, è stato reso noto proprio adesso? Forse perché i recenti cambiamenti nella dinamica regionale lo consigliano alle parti e anche agli Stati Uniti. Ci si riferisce qui all’evoluzione che si è avuta in Libano, dove una lettura – forse ingenua – del successo ottenuto dal colpo di stato del Partito di Dio a metà maggio suggerisce la necessità di fare qualche cosa nella regione per cercare almeno di arrestare l’avanzata inesorabile del “potere sciita”. La remissività degli Usa nelle circostanze del sommovimento libanese di metà maggio è stata ovviamente notata da tutti gli osservatori, sia nel senso della mancanza di un intervento nella questione libanese, che apparentemente è stata solo subito, sia nel senso di astensione dalla viva opposizione finora manifestata da Washington nei confronti dei fautori israeliani di una ripresa di contatto con la Siria. Un giornalista di base a Beirut, Nicholas Blanford, , ha sottolineato che “pochi in Medio Oriente considereranno una coincidenza che nello stesso giorno sia stato fatto l’accordo di Doha [che consacra la vittoria del Partito di Dio e del suo “colpo di stato” dandogli potere di veto nei confronti della maggioranza] e sia stato annunciato che Israele e Siria sono impegnati da più di un anno in colloqui di pace mediati dai turchi”. Dunque, la novità – che, come abbiamo detto, non sta nei colloqui,– sta nel fatto che essi siano ora un tassello esplicito nel mosaico conflittuale che oppone Usa e Iran: Washington avrebbe dato via libera ad Israele, accettando la tesi di Olmert e di molti israeliani che un positivo negoziato con la Siria potrebbe essere il punto di sblocco del conflitto diretto e indiretto fra Washington e Teheran e relativi alleati e clienti.
Tra Washington e Teheran
Anche ammesso che l’opposizione degli Usa – uno degli ostacoli principali alla ripresa del negoziato Siria-Israele – sia ora attenuata, se non eliminata, come risultato dei cambiamenti in corso nella dinamica regionale, restano nondimeno incertezze e interrogativi. I più nazionalisti fra i conservatori israeliani, come Dore Gold, ora presidente del Jerusalem Center for Public Affairs,e già stretto collaboratore di Benjamin Netanyahu, oltre ai noti argomenti militari sul possesso delle alture, avanzano pesanti dubbi sulla possibilità che un trattato di pace allenti le alleanze regionali siriane. Secondo questo settore dell’opinione pubblica israeliana, la Siria resta padrona di cambiare e ricambiare idea: “Mentre la concessione del Golan da parte d’Israele sarebbe irreversibile, l’orientamento politico degli stati del Medio Oriente è notoriamente variabile”. In altri termini, il quesito che agita un po’ tutti da quando si è riparlato di negoziato Siria-Israele è se, in cambio della restituzione del Golan, veramente la Siria sia interessata a rivedere la sua posizione regionale. In effetti, quando si parla con i siriani, si capisce con certezza la loro ferma intenzione di continuare a giocare un ruolo regionale maggiore, ma non si capisce bene come s’immaginino l’adattamento di questo ruolo nel contesto del rapporto di pace che desiderano con Israele e del rapporto collaborativo cui aspirano nei confronti degli Stati Uniti.
Lo IAI che, sotto l’ombrello di EuroMeSCo il 16 maggio scorso ha organizzato a Damasco un seminario sui rapporti fra l’Unione europea e la Siria, ha avuto un’opportunità di ascoltare dai colleghi siriani le loro idee sulla situazione regionale. In particolare, le ha potute ascoltare dalla voce del direttore dello Oriental Center for International Studies-Ocis, Samir Al Taqi, il quale è – secondo una recente informazione di Haaretz – il rappresentante siriano nei colloqui che Ankara sta mediando da più di un anno. Quello che lo IAI ha sentito dire a Damasco coincide con le valutazioni degli analisti israeliani favorevoli ad andare avanti con la Siria. La Siria non prenderà impegni espliciti sulle sue alleanze regionali attuali, né inaugurerà con Israele una pace “calda” a seguito del trattato. Certamente però prenderà impegni di sicurezza nei confronti di Israele, se questi saranno garantiti da un’intesa americana circa un suo ruolo politico regionale nei confronti del Libano, della Palestina e dell’Iraq. Questo ruolo, in quanto a fronte di garanzie di sicurezza verso Israele, sarà per forze di cose diverso, nei suoi contenuti e obiettivi, da quello, diciamo “panarabo”, che finora la Siria ha cercato di svolgere, appoggiandosi un po’ equivocamente all’Iran. In esso, gli obiettivi di sviluppo economico sono destinati ad avere un posto di primo piano.
Un mosaico regionale diverso
Quanto è credibile tutto questo? In generale, si deve sottolineare che un trattato di pace con Israele colloca automaticamente la Siria accanto all’Egitto e alla Giordania, in una posizione regionale sostanzialmente e irrevocabilmente diversa da quella attuale. Ciò non cambierà automaticamente l’allineamento regionale di Damasco, ma non potrà che indebolire e mostrare i limiti delle attuali alleanze. Tuttavia, per rispondere in modo sia pur cautamente affermativo ai dubbi sulla credibilità della prospettiva siriana che sembra trasparire dai recenti avvenimenti, si deve riflettere sul fatto che a lungo termine sia l’alleanza con l’Iran sia quella con il Partito di Dio in Libano contengono forti elementi di contraddizione per la sicurezza di un regime secolare, nazionalista e di ristretta legittimazione come quello degli Assad.
La brillante strumentalizzazione dell’alleanza con gli sciiti è destinata prima o poi a finire o rovesciarsi, in particolare la stabilizzazione di un Libano a guida sciita è tutt’altro che favorevole alla sicurezza della Siria. Perciò, la Siria si trova ad effettuare l’ennesimo “movimento correttivo” della sua storia contemporanea, questa volta da un allineamento internazionale ad un altro. Ma questo cambiamento, che può compiersi nel lungo termine e solo a quel punto portare i suoi frutti, deve passare per una difficile transizione nel breve termine: uno stretto sentiero fra l’abbandono di una posizione autorevole ma costosa e rischiosa e l’edificazione di una posizione altrettanto autorevole in un contesto, però, di alleanze e rapporti più facili e gratificanti.
Non è un passo da poco, ma è una prospettiva di estremo interesse per la sicurezza dell’Occidente e dell’Italia, che certamente va incoraggiata e sostenuta. È auspicabile che il nuovo governo italiano continui ad incoraggiarla e sostenerla mantenendo alta, come avvenuto negli ultimi anni, l’attenzione verso la Siria e l’intera regione.