Gli strani affari di Chavez
La sventurata prigioniera dei narco-guerriglieri colombiani Ingrid Betancourt, gravemente ammalata, sarà dunque infine liberata? In effetti i leader del Farc dovrebbero essersi resi conto che prolungare la sua prigionia non è politicamente conveniente. Al contrario, il presidente colombiano Alvaro Uribe non fa concessioni e la questione attira l’attenzione sulle loro attività, mettendoli in pessima luce. Forse irrita anche il capo di Governo che più simpatizza con loro, il presidente venezuelano Chavez, al quale negano l’onore e il prestigio di una liberazione, suo tramite, di questa figura divenuta emblematica per il Farc nell’intera scena internazionale. Della tolleranza di Chavez sulle loro attività in Venezuela i guerriglieri non possono fare a meno; c’è dunque a questo punto da temere che la mancata liberazione della Betancourt sia legata a condizioni di salute gravissime, o perfino peggio.
Il Farc e il Venezuela
Quando nel marzo scorso l’esercito colombiano ha sconfinato di due chilometri in Ecuador, uccidendo il comandante Raùl Reyes e acquisendo documenti e informatori, la crisi diplomatica è scoppiato soprattutto tra colombiani e venezuelani. Gli ecuadoriani, le vittime dell’incursione, hanno dato l’impressione di essere un elemento secondario della crisi, nell’agitato contorno degli altri paesi latino-americani, in generale più seccati o imbarazzati dall’episodio che schierati. Si ritiene sia stato il presidente brasiliano Lula, al quale Chavez avrebbe tentato più volte di telefonare senza ricevere risposta, a ottenere una chiusura della questione con un nulla di fatto. I carri armati alla frontiera sono stati ritirati, scuse sono state presentate, i dirigenti si sono abbracciati, ma il polverone sollevato dalla vicenda ha fatto molta luce su tutto il quadro del Farc, sui problemi attuali del movimento e sui suoi legami, politici o di individuale corruzione, con dirigenti venezuelani.
Gli esperti della regione sono da tempo a conoscenza di questa situazione, ma adesso anche importanti giornali diffondono informazioni sull’argomento con rivelatrici indagini sul terreno. In sintesi il Venezuela costituisce per il Farc una sede di residenza per le famiglie dei dirigenti e un rifugio per i loro reparti militari in difficoltà. Ma il paese confinante è soprattutto l’indispensabile canale di passaggio all’estero della droga che alimenta l’attività del movimento e contemporaneamente costituisce una fonte di grossi redditi per una catena di unità militari di frontiera, uomini politici locali, doganieri e poliziotti venezuelani.
Il presidente Chavez è complice diretto di questo stato di fatto? I computer e i documenti di Reyes avrebbero rivelato storie di soldi e armi leggere da lui fornite ai Farc, ma le cifre o il tipo di armi indicate sono di insignificante valore, considerate le centinaia e centinaia di milioni di dollari coinvolti nel traffico di droga gestito dai guerriglieri colombiani. Vi è però l’appoggio politico che Chavez fornisce loro, esternato pubblicamente, anzi possiamo dire esploso in televisione al momento della notizia dell’uccisione di Reyes. Il presidente venezuelano l’ha definito un “atto codardo”, nel confermare la sua nota tesi che il Farc è un legittimo movimento politico di resistenza e ordinando al ministro della Difesa, sempre direttamente in televisione, di mandare al confine dieci battaglioni di soldati, accompagnati da carri armati.
Siamo qui in presenza di una vistosa manifestazione della guerra di Chavez contro “l’imperialismo americano”. Sono infatti gli Stati Uniti che forniscono a Uribe gli ingenti mezzi economici, circa un miliardo di dollari all’anno, nonché l’avanzatissima tecnologia alla base dei successi dell’esercito colombiano contro il Farc. Nel campo dei sentimenti anti-yankee il presidente venezuelano si muove su un terreno sicuro. Essi sono fortemente presenti in tutto il mondo latino-americano, basati sulla storia dei rapporti tra mondo ispanico e mondo anglosassone, storia di eventi antichi, ma anche di relativamente recenti. Essi sono stati la base principale dell’appoggio, o almeno della simpatia, di cui sempre ha goduto Fidel Castro in America Latina. Ma altra questione è una campagna contro i “fratelli” colombiani, collegata poi al problema delicato di una guerriglia feroce alimentata dal traffico della droga.
La situazione in Colombia
Quando Uribe arrivò al potere nel 2002, la guerriglia del FARC era rampante. Il suo predecessore aveva appena posto termine ad una tregua con i guerriglieri che avevano utilizzato le zone “demilitarizzate” che gli erano state concesse non come una tappa per giungere ad una soluzione politica del conflitto, ma come un’occasione per estendere l’azione militare. I guerriglieri in campo erano circa 20.000, e bloccavano le strade principali del paese, assaltavano cittadine, rapinavano e prendevano ostaggi praticamente dappertutto. Ancor peggio, in reazione alla situazione si erano enormemente estese le milizie di autodifesa di destra, finanziate in genere dai proprietari di terre, le quali non erano inferiori al Farc quanto a ferocia e mancanza di rispetto della vita umana.
Il presidente Uribe, il cui padre è stato ucciso dai guerriglieri, ha riorganizzato le forze di sicurezza e ha cambiato drammaticamente la situazione nel giro di qualche anno. I guerriglieri, dimezzati di numero, hanno dovuto ritirarsi nei vasti territori di pianura tropicale ai confini del paese, mentre le milizie di autodifesa sono state comprate o dissolte con amnistie ed altre concessioni. Alla fine del 2007 e inizio del 2008, strumenti tecnici avanzatissimi di osservazione dei territori, infiltrazioni di spie, diserzioni e uccisioni mirate di dirigenti, hanno spinto il Farc ancor più alla frontiera dei paesi confinanti. Così adesso i sondaggi indicano che la popolarità di Uribe in Colombia è pari all’82%. Nel corso del suo scontro con Chavez si è elevata allo 84 per cento.
La lunghissima vicenda del Farc non è conclusa, come provato dalle circa seicento persone tenute in ostaggio. Ma sembra avvicinarsi a una conclusione e, per recuperare terreno sul piano militare, il Venezuela dovrebbe a questo punto fornire non semplicemente possibilità di rifugio e di contrabbando della droga, ma armi sofisticate capaci di abbattere elicotteri e aeroplani: una decisione non televisiva, molto difficile da prendere.
Malcontento in Venezuela
Innanzitutto i due paesi sono economicamente strettamente legati. La poco brillante gestione dell’agricoltura venezuelana ha reso il paese ancor più dipendente dalle importazioni di prodotti agricoli colombiani, in un momento nel quale i prezzi di queste derrate sono in generale aumento. In effetti il malcontento popolare è in Venezuela alimentato proprio dall’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari e di quello del gas per cucinare, dato paradossale, quest’ultimo, in un paese che è uno dei massimi produttore di petrolio al mondo. La cattiva gestione di questa enorme fonte di ricchezza è provata da un aumento dell’inflazione del 24% e da una svalutazione della moneta venezuelana, nei confronti di un dollaro in declino mondiale, con un cambio nero del 100%.
Del resto, anche il conflitto con Washington presenta degli aspetti paradossali e dei limiti sostanziali. Gli Stati Uniti sono i principali importatori di petrolio venezuelano e il Venezuela ha delle difficoltà a diversificare i suoi clienti. Il petrolio venezuelano è infatti solforoso e la maggioranza degli impianti adatti alla sua raffinazione sono proprio negli Stati Uniti. Questo vincolo spiega forse il fatto che nei loro continui conflitti con le autorità venezuelana alcune società petrolifere, come la Chevron o l’ Eni, cercano di trattare, ma l’Exxon ha scelto lo scontro, ricorrendo ai tribunali internazionali e alle richieste di sequestro di attivi finanziari.
In effetti con un livello di popolarità sotto il 50%, secondo gli ultimi sondaggi, lo spazio di manovra del presidente Chavez è limitato. A novembre si vota in Venezuela per cariche di sindaco e di governatore in 24 stati federali e se in queste elezioni Chavez non recupera decisamente sul fallito risultato del referendum costituzionale di dicembre che gli avrebbe dovuto permettere la rielezione a presidente, il suo declino politico diventerà irreversibile. Il presidente, perciò, estende la politica di socialismo boliveriano. Molte delle nazionalizzazioni che sta introducendo in questo periodo gli dovrebbero permettere di abbassare nell’immediato i prezzi di alcuni prodotti base, come il latte e il cemento per le costruzioni, fornendogli contemporaneamente nuovi fondi e posti di potere per i suoi affiliati. Gli effetti negativi sulla economia venezuelana si vedranno più tardi, ad elezioni ormai avvenute.
In questo quadro si è avanzata l’ipotesi che, nella crisi di frontiera di marzo, Chavez mirasse ad acquisire popolarità stimolando il sentimento nazionale. Il gioco, se questo era, non è riuscito. Un’agenzia di sondaggio. Hinterlaces, ha rilevato subito dopo l’evento che l’89% dei venezuelani era contrario al conflitto con i colombiani, ma interessante è anche il dato correlato all’allarme per l’aumento della criminalità in Venezuela: l’87% degli interrogati è contrario al Farc.