McCain: meno debole di quel che sembra
Le primarie americane sono alle battute conclusive e gli occhi sono tutti puntati sulla sfida interna al Partito Democratico. Data come ormai prossima alla resa, Hillary Clinton ha infatti riaperto i giochi riportando importanti vittorie nel Texas e nello “swing state” dell’Ohio (nel primo si discute ora del risultato finale), anche se Barack Obama l’ha poi ripagata con il Wyoming e con il Mississippi. Rapiti da questa competizione adrenalinica che continuerà verosimilmente fino alla convenzione nazionale di Denver dell’agosto prossimo, i commentatori di tutto il mondo dibattono affannosamente su chi, tra il brillante, ma meno scafato Obama e l’esperta, ma non sempre amata Clinton, sarebbe il miglior presidente per lasciarsi alle spalle l’era Bush. Ma se alla fine vincesse il repubblicano John McCain? E se così poi fosse, andrebbe letto in questo un rifiuto del cambiamento?
Situazione incerta
L’affermazione di McCain pare non essere del tutto un’ipotesi astratta. Secondo un recente sondaggio Los Angeles Times-Bloomberg , il senatore dell’Arizona sarebbe infatti in grado di battere Hillary Clinton con uno schiacciante 46 a 40 ed Obama con un più modesto, ma decisivo 44 a 42. Non sarà certo un sondaggio, peraltro contraddetto da altri , a decidere la contesa, ma questi dati invitano per lo meno ad esaminare con maggior prudenza le dinamiche politiche ed elettorali recenti, e a indagare meglio le caratteristiche della candidatura McCain.
Lo schiacciamento mediatico sulle candidature democratiche, oltre che dal fatto che i Repubblicani hanno già individuato il loro candidato, dipende da un’attesa diffusa per un cambio politico alla presidenza. La spiegazione è abbastanza ovvia e ha a che fare, sostanzialmente, con il fallimento dell’amministrazione Bush. I Democratici dovrebbero essere i beneficiari naturali della crisi del Bushismo, aggravata di recente, oltre che dagli insuccessi della politica estera, dai preoccupanti dati sull’economia americana e così, a dire il vero, sono largamente percepiti. Il modo in cui i candidati democratici si sono presentati e confrontati finora, tuttavia, rischia di non sfruttare appieno quello che pare essere un chiaro vantaggio di partenza.
Un partito che si appresta a raccogliere il consenso degli scontenti e degli indecisi in nome della competenza e della novità politica si trova pericolosamente avvitato in una spirale di conflittualità interna che potrebbe ridurne la credibilità. Paradossalmente, infatti, i due candidati si imputano di rappresentare rispettivamente l’uno, la vecchia politica, l’altro, un cambiamento “solo a parole” e non sostenuto da un’adeguata competenza, e l’ipotesi ventilata di un “dream ticket” congiunto è stata per ora rifiutata da Obama.
Quanto poi alla capacità di allargare il bacino elettorale verso gli elettori meno schierati, oltre all’handicap di un partito che si presenta diviso, potrebbero giocare negativamente fattori più specifici. Si è già evidenziato che Obama ha una buona presa sull’elettorato “indipendente”. Il suo slogan di grande effetto che “non esistono stati blu e rossi, ma solo gli Stati Uniti d’America” è la testimonianza di una campagna che tende la mano all’elettorato non Democratico. Ciò nonostante, un programma molto attento ai temi sociali e ai bisogni degli strati più deboli e delle minoranze rischia di restituire ad Obama l’immagine di un leader collocato nell’area più radicale dello schieramento liberal. Dall’altro lato, la ex first lady, per quanto si sforzi di evocare gli anni felici dell’era Clinton, viene per lo più associata all’aspro scontro ideologico di un’epoca che si vorrebbe lasciare alle spalle e risulta a tutt’oggi una delle personalità più “polarizzanti”, oltre che meno nuove, sulla scena politica americana.
I limiti di McCain
Ed è qui che entra in campo McCain. Il senatore ha sicuramente dei limiti specifici, oltre ad essere un esponente di spicco del partito del presidente che peraltro lo ha indicato di recente come suo degno successore. Tra questi, l’età avanzata che tende a penalizzarlo in una campagna giocata sull’immagine oltre che sul contenuto del cambiamento, una non sufficientemente comprovata competenza in materia economica proprio ora che la recessione incombe, nonché una scarsa presa sui settori più conservatori del suo stesso partito, come dimostrato dalla buona prestazione nelle primarie del tradizionalista Mike Huckabee.
Tuttavia, di fronte alle divisioni dei democratici, l’appeal del terzo incomodo non è affatto da trascurarsi. McCain ha saputo infatti in questi anni accattivarsi le simpatie di molti indipendenti nonché guadagnarsi il rispetto anche di settori dell’elettorato liberal. Le campagne contro la corruzione e la lobby del tabacco, e i numerosi provvedimenti votati assieme al partito avverso, come il Patient’s Bill of Rights cosponsorizzato con John Edwards e Ted Kennedy e inviso all’industria ospedaliera e farmaceutica – hanno nutrito l’immagine di un leader se non indipendente, comunque non schiacciato sulle posizioni dell’Amministrazione.
Per quanto riguarda la politica estera, nonostante la fama di “falco”, McCain ha mantenuto un corso equilibrato e soprattutto indipendente, forte in ogni caso della sua competenza che non ha nulla da invidiare alla Clinton né tanto meno a Obama. Il senatore si è opposto, ad esempio, al ricorso alla tortura, sfidando su questo tema l’amministrazione Bush e ottenendo consensi trasversali. Quanto alla spinosa questione irachena, McCain ha appoggiato l’intervento nel nome dell’interesse nazionale e non ha fatto abiura come la Clinton, guadagnandosi anzi il rispetto dell’opinione pubblica per aver difeso questa scelta anche nei momenti più cupi. In un clima di sfiducia generalizzata, McCain fu tra coloro che sostenne la strategia di Petraeus che pare aver aperto ora qualche prospettiva di uscita positiva dall’impasse irachena.
A ben guardare, è difficile per un elettore americano non vedere in McCain una proposta politica comunque diversa da quella di Bush, per cui con una sua elezione gli elettori esprimerebbero un’istanza di cambiamento, pur votando per i Repubblicani. Per quanto ora il presidente sia pronto a fare campagna per lui, McCain è stato in realtà l’“anti-Bush” fin dal 2000, cioè quando i due si scontrarono violentemente durante le primarie Repubblicane. Da allora, molte cose li hanno divisi come i tagli fiscali di Bush del 2001 o l’approccio alle questioni ambientali.
La presenza tra i suoi consiglieri di politica estera di realisti quali Henry Kissinger e Brent Scowcroft lo distanziano dall’estremismo ideologico dei neoconservatori a cui alcuni detrattori l’hanno associato, un orientamento, questo, confermato dai suoi frequenti richiami al presidente progressista di inizio Novecento Theodore Roosevelt, preso a modello di una politica estera fondata sull’interesse nazionale, anziché trasformata in una crociata del bene contro il male. Per quanto riguarda il tema delle alleanze, McCain è stato tra quanti ha sottolineato l’importanza di un rilancio del multilateralismo per riconferire autorità politica e morale alla politica estera degli Stati Uniti. Il senatore ha anche proposto la creazione di istituzioni nuove, come una “ Lega delle Democrazie” aperta a quei soggetti emergenti, tra cui l’India, che avrebbero interesse ad ancorare l’evoluzione del sistema internazionale ai principi liberali dell’Occidente.
Insomma, l’America tutta, e non solo quella liberal attende un nuovo Presidente. Il Partito Democratico potrebbe soddisfare questa attesa se fosse capace di creare consenso non solo attorno al fallimento di Bush, ma sulla base di una piattaforma credibile e di una leadership forte. Ma per ora il partito si mostra diviso e il candidato che più ha investito sul bisogno di novità viene attaccato duramente dalla sua concorrente per la sua inesperienza e irresponsabilità, mentre lui stesso scaglia il vento del cambiamento contro l’establishment del suo partito. Questo invita a non sottovalutare la proposta repubblicana che pare meno debole di quanto sembrerebbe. Soprattutto se i Democratici continuassero a squalificarsi a vicenda fino a tutta l’estate, la candidatura McCain, per quanto non priva di handicap, potrebbe attrarre quote insperate di elettorato. Gli elettori deciderebbero così di premiare il rigore e l’indipendenza di un leader che ha saputo conquistarsi il rispetto anche di parte dell’America non Repubblicana, e che per i suoi orientamenti politici marcherebbe una discontinuità con l’era Bush, anche se meno radicale di quella promessa dai Democratici.