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Medio Oriente

Yemen, un paese diviso

18 Feb 2008 - Francesco Saverio Ojetti - Francesco Saverio Ojetti

SAN’A – La Provincia di Saada, nello Yemen nord-occidentale, riprende a contare i caduti della Shabab al-Muminayn (la Gioventù Credente) in conflitto da quattro anni con le forze governative. Anche le fonti ufficiali fanno i conti e registrano oltre cinquemila uomini caduti nel corso del 2007 tra i due fronti. La Shabab, l’organizzazione composta dalla setta sciita degli zaidi, da sempre spina nel fianco dell’esecutivo del Presidente, Alì Abdullah Saleh, è accusata di voler destabilizzare il paese per mantenere un controllo esclusivo sui territori del nord. Il governo di San’a ha deciso ora di puntare l’indice su Iran e Libia, ritenuti responsabili di fornire aiuto logistico e militare al gruppo ribelle.

Intrecci di sangue
È da tempo che lo Yemen ha chiesto a Tripoli di estradare Yahya al-Houthi, fratello dell’attuale leader della Shabab, Abdullah al-Malik al-Houthi e ha pregato Teheran di agire per sospendere la fornitura di armi al gruppo ribelle. Il conflitto con la Gioventù Credente si protrae ormai da anni, ma solo da pochi mesi è stato elevato a problema nazionale. È possibile che il paese stia cavalcando l’ondata di critiche nei confronti degli sciiti nella regione per ottenere ulteriori finanziamenti, nell’ambito del programma di ingresso nel Consiglio per la Cooperazione nel Golfo. L’obiettivo della teocrazia iraniana potrebbe essere la destabilizzazione del paese per indebolire gli alleati di Washington e acquisire ulteriore spazio di azione per il dominio nella regione. È dunque probabile l’ingerenza di Teheran negli affari interni di San’a, oltre che il suo coinvolgimento nella effettiva fornitura di armi ai gruppi ribelli. Il cessate il fuoco della scorsa estate mediato dal Qatar, tra il presidente Ali Abdullah Saleh ed Abdullah al-Malik al-Houthi, capo dei ribelli zaidi, ha illuso gli attori della fine imminente del tragico spettacolo. La tregua, che è stata resa pubblica a metà giugno con una dichiarazione di al-Houthi, era giunta alla fine di una campagna militare che le truppe di Sana’a avevano intrapreso negli ultimi mesi, impegnando oltre 30mila soldati nel governatorato settentrionale di Sa’dah per avere gioco facile sulle centinaia di ribelli fedeli al clan degli Houthi. Poi la strage dei turisti nel distretto occidentale di Mareb, 170 chilometri a sud dalla capitale. Era il 2 luglio 2007. Sette spagnoli e due guide yemenite, venivano fatte saltare in aria proprio mentre il regime di Saleh era impegnato a chiudere il fronte più caldo degli ultimi anni. La colpa è stata attribuita ad Al Qaeda, ma la verità è ancora una volta nelle mani della Public Corporation for Radio and TV (del Ministero delle Comunicazioni), strumento di controllo, gestione e filtraggio dell’informazione radio-televisiva del paese.

Porte aperte agli Usa
Alì Abdullah Saleh, Presidente da 29 anni, il primo democraticamente eletto e leader più longevo della storia del paese, aprendo le porte agli Usa ha intuito la possibilità chiudere definitivamente la partita con gli Houthi cominciata nel 2004 e mai sedata. Una ribellione iniziata dall’Imam Hussein Badr Eddine al Houthi, che come Saleh apparteneva agli zaidi, setta sciita presente solo nello Yemen e generalmente moderata. A capo del movimento denominato Shabab al-Muminayn (la “Gioventù Credente”), da sempre inquadrato come gruppo terroristico, Houthi voleva riportare in corsa l’Imam zaidi al potere prima del 1962 fino al colpo di stato, sconfessando quella Repubblica che vivacchia in uno dei paesi più delicati della penisola araba. Non è bastata però la a morte di Houthi nel settembre del 2004 seguita ad una durissima campagna militare, per riportare la pace nel governatorato di Sa’ada, dove le organizzazioni umanitarie contano oggi oltre 40mila sfollati. Il confronto tra i ribelli ed i governativi è continuato sotto la guida del padre e dei fratelli di Hussein Badr Eddine, che hanno poi negoziato il loro esilio in Qatar ed il riconoscimento del regime repubblicano. Il Qatar ha ancora una volta in mano le carte per fermare lo scontro lì dove le decine di migliaia di soldati inviati dal governo centrale hanno fallito, nonostante le centinaia di vittime di cui accenna sporadicamente la pochissima stampa locale d’opposizione. Il governo di Doha ha mediato la tregua e ha anche firmato, dopo l’annuncio del cessate il fuoco, un sostanzioso progetto di sviluppo che dovrebbe portare nello Yemen oltre 500 milioni di dollari americani. Ma a complicare la difficile situazione ci sono ancora molti altri fronti aperti in un paese considerato tra i più delicati per la sua instabilità istituzionale: ci sono le divisioni tribali che confluiscono in settarismi religiosi dove le proteste dell’opposizione sono soltanto alla mercé dei pochi. E ci sono poi le proteste nel sud, che da sempre si sente emarginato dalla condivisione del potere.

Un paese in bilico
Lo Yemen è uno dei paesi più poveri del Medio Oriente – almeno il 45% della popolazione vive sotto la soglia di povertà – ha conosciuto una fase di crescita economica a partire dal 2000, grazie ad una serie di riforme tese a modernizzarne le strutture economiche, ma la sua redditività resta prettamente legata all’esportazione del petrolio. Nel Paese circolano oggi 60 milioni di armi per una popolazione che conta 20 milioni di persone, la stima è presto fatta. Da qualche mese il governo di Sana’a ha iniziato una campagna per chiudere le rivendite di armi non autorizzate. Un comitato atto a censire le armi in circolazione, istituito dal Ministero dell’Interno, ha varato un piano triennale per regolarne il possesso. La decisione non ha però per il momento riscosso la simpatia delle numerose tribù locali che l’hanno accolta come un tentativo per disarmarle. L’opinione pubblica yemenita in cuor suo è attenta a fare previsioni, ma non risparmia le critiche. La relazione tra l’aumento degli scontri tribali nell’ultimo anno con il nodo delle riforme economiche necessarie per garantire uno standard minimo di sicurezza, di benessere e di alfabetizzazione è la teoria più in voga del momento, insieme a quella che preoccupa davvero gli economisti che vedono i disordini come la principale causa di timore per gli investitori stranieri.

Le autorità yemenite hanno anche un altro annoso problema da gestire, i rifugiati. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), ha lanciato il mese scorso una campagna informativa nel Corno d’Africa per scoraggiare i potenziali migranti dall’attraversare il Golfo di Aden ed arrivare illegalmente in Yemen. Nel 2007 sono stati circa 28 mila i somali che hanno compiuto questa traversata per scappare alle violenze e cercare rifugio in un altro Paese o per trovare lavoro. Secondo l’Unhcr i morti tra i boat people sarebbero oltre 1.400. E l’ultima strage nella quale hanno perso la vita 58 persone, si è consumata proprio alla vigilia del nuovo anno nelle acque torbide del golfo di Aden.