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Prospettive 2008: Medio Oriente

Fra limitazione dei danni e nuove instabilità

17 Gen 2008 - Roberto Aliboni - Roberto Aliboni

Gli Stati Uniti hanno sempre contato molto per il Medio Oriente, dopo che con la crisi di Suez ebbero soppiantato gli europei nella regione. Con le sue scelte, l’amministrazione di George W. Bush ha più che mai fatto pesare il suo paese sulle sorti del Medio Oriente facendo di questa regione il fuoco della politica estera americana. Manca un anno alla fine dell’amministrazione Bush e verrebbe fatto di pensare che, essendo ormai bella che fallita la strategia neocon del presidente, il 2008 sarà un anno di transizione verso un nuovo Presidente, una nuova strategia e, auspicabilmente, una politica più favorevole all’Occidente e al Medio Oriente, un anno in cui il Presidente non prenderà nuove iniziative e cercherà di arginare i danni che la sua politica ha fatto al partito repubblicano e alle possibilità di avere un nuovo presidente quando alla fine del 2008 ci saranno le elezioni.

Maggiore equilibrio
Sulla strada del contenimento dei danni, peraltro, si è già fatta una certa strada, dopo che i democratici sono andati in maggioranza al Congresso: Rumsfeld è stato silurato e Cheney è stato abbastanza efficacemente contenuto dalla signora Condoleezza Rice. Invero, con la Rice il corso della politica estera americana apparentemente non è cambiato: resta al fondo dell’ “Amministrazione-pensiero” la concezione della diplomazia – per dirla con il professor Augustus Richard Norton – “as a reward, a form of legitimation that it wishes to deny to its enemies unless they satisfy its demands”. Innegabilmente, però, la Rice ha praticato quest’arrogante concezione con più equilibrio e flessibilità. Il negoziato regionale consigliato dall’ Iraq Study Group alla fine del 2006 con l’Iran e la Siria e gli altri vicini dell’Iraq non l’ha aperto. Tuttavia, un certo dialogo con questi paesi l’ha dischiuso e, soprattutto, sembra sia riuscita ad arginare in seno all’Amministrazione le spinte verso l’impiego della forza nella difficile vertenza con l’Iran.

In ogni caso, la sfumatura introdotta dalla Rice nei confronti dell’Iran è stata trasformata in un taglio netto dalla National Intelligence Estimate di un mese fa che, facendo un evidente passo indietro, ha stabilito che il programma militare dell’Iran è stato arrestato nel 2003. La National Intelligence Estimate è più rilevante nel suo significato di politica interna che per quello che dice sul programma nucleare iraniano: essa non è in grado di escludere una decisione del presidente di intervenire, ma la rende politicamente proibitiva. È una sorta di congiura dei servizi; non è escluso che il Dipartimento di Stato ne sia complice.

Perciò, mentre l’ipotesi di un intervento militare contro l’Iran sembra dissolversi, il 2008 si annuncia per il Medio Oriente come un anno di limitazione dei danni, affidato al “surge” del generale Petraeus in Iraq e ai negoziati fra Israele e i palestinesi di Abbas. Il generale deve porre le condizioni militari perché sia possibile un arrangiamento politico fra le parti irachene e un graduale (comunque lontano) ritiro del corpo di spedizione americano. Israele e i palestinesi di Abbas devono provvedere una soluzione politica al conflitto che sia un successo per Bush e i repubblicani e un sostegno per gli alleati arabi, sunniti e moderati, di Washington a fronte del comune avversario persiano, sciita e radicale.

Periodo di transizione
In effetti, il 2008 potrebbe essere un anno di semplice transizione anche perché in Iran ci saranno le elezioni legislative e, assai probabilmente, esse segneranno una sconfitta per l’ala conservatrice e radicale di Ahmadinejad. Inoltre, in Libano la Lega Araba è riuscita a varare un compromesso fra le parti consistente nell’elezione del capo di stato di maggiore, generale Michel Suleiman, a presidente della Repubblica, un compromesso che fa uscire il paese dallo stallo in cui il muro contro muro fra Hizbollah e Fronte del 14 marzo l’aveva cacciato. Non ha l’aria di un compromesso solido, ma è un segno che le fazioni libanesi e la Siria non desiderano lo scontro. A questo va aggiunto che sembra essersi aperto un sia pur cautissimo dialogo fra Stati Uniti e Siria.

La Rice ha aperto due tavoli nel 2007 – solo a parole in sintonia con le conclusioni dell’Iraq Study Group – uno con l’Iran, che però ha come agenda nulla più che la discussione delle asserite interferenze iraniane nel conflitto interno dell’Iraq; un altro con la Siria, che sembra invece orientato a discutere le questioni politiche di fondo, anche se per ora non se ne sa nulla. Dunque, sembra che, deposta la strategia “smart”, ma assolutamente perdente, dei neocon, l’Amministrazione si ingegni di condurre in porto qualche risultato che almeno non rovesci sull’amministrazione seguente una situazione debitoria esorbitante.

Naturalmente, questa transizione può essere interrotta da chiunque, perché le sorgenti dell’instabilità, esasperate dalla politica di Bush, non sono state domate, al contrario sono ancora in azione e non hanno nessun interesse a conformarsi al più basso profilo dell’Amministrazione. Anzi, sentendo la sua debolezza potrebbero approfittarne per scagliare nuovi attacchi e aprire nuovi fronti.

Tensioni potenziali
Molte le forze in agguato. Innanzitutto, il gruppo al potere in Iran è intemperante e soggetto a forzature dall’interno. Come dimostra l’incidente nello stretto di Hormuz all’inizio di gennaio 2008, provocato dai barchini iraniani contro una squadra navale americana in navigazione, le provocazioni non mancheranno. La gente dei barchini ha già dimostrato di essere la punta di diamante del regime quando, circa un anno fa, sequestrò un numero di marinai britannici (come italiani, possiamo agevolmente riconoscere la loro “cultura” di arditi, di beffe e colpi di mano dannunziani o borghesiani). Le provocazioni potrebbero moltiplicarsi, ma difficilmente Bush le raccoglierebbe (a meno che non raggiungano proporzioni insostenibili).

In Iraq, le tattiche messe in atto dal generale Petreaus e le alleanze con le tribù sunnite dell’Anbar, di conserva con il miglioramento nell’addestramento delle forze irachene di sicurezza, hanno cominciato a dare qualche frutto, ma lo jihadismo risponde insediandosi in altre parti del paese e soprattutto spostando il suo fuoco in Afghanistan e Pachistan. La moltiplicazione degli attentati suicidi in Afghanistan e, soprattutto, l’assassinio della signora Bhutto, aprono nuovi fronti in un’area forse ancora più esplosiva dell’Iraq.

Il tentativo americano di cambiare cavallo in Pachistan, sostituendo un’imbelle democratica a un ambivalente generale, ha messo in moto più problemi di quanti fosse destinato a risolverne. Sempre con più forza, da quando ha lanciato la sua crociata democratica, l’Occidente si trova di fronte al dilemma fra riforme e stabilità. Inoltre, si trova ad appoggiare forze incoerenti con le sue alleanze: gli sciiti in Iraq e, ora, in Pachistan, di nuovo un leader sciita (fra l’altro con una figura politica – i suoi contatti con i talibani – e morale – la corruzione in famiglia – non limpidissima). Tutto questo non va bene per gli alleati moderati e sunniti del mondo arabo.

D’altra parte, se la conferenza di Annapolis è stata fatta anche per rassicurare gli alleati sunniti, non solo questa rassicurazione è indebolita dalla politica americana in Pachistan e dalla persistente debolezza dell’intervento occidentale in Afghanistan, ma lo stesso rilancio del processo israelo-palestinese è assai problematico e non molto credibile. Ammesso che raggiunga il suo scopo – un accordo fra Israele e la parte “buona” dei palestinesi – la divisione dei palestinesi peserà sull’eventuale accordo e rischierà di vanificarne la portata, con conseguenze nuovamente destabilizzanti. Accanto agli sviluppi in Pachistan e Afghanistan, processo di Annapolis, basato su governi nazionali deboli (Olmert potrebbe cadere non appena all’inizio di febbraio sarà reso noto il rapporto Winograd sulla guerra in Libano del 2006) e su un’ipotesi politica intrinsecamente avventurista (la divisione dei palestinesi), potrebbe trasformarsi da fattore destinato a limitare i danni in un danno ulteriore).

Perciò, mentre il presidente Bush, protagonista dei gravi sussulti della regione negli ultimi otto anni, cerca di andarsene appianandoli, la sua stessa eredità politica continua ad operare e a rendere quindi difficile il tentativo di uscirne. Così, l’incipiente stabilizzazione in Iraq potrebbe essere vanificata dagli sviluppi in Afghanistan e soprattutto in Pachistan. Le stesse politiche messe in atto per limitare i danni – come il rilancio del processo israelo-palestinese – potrebbero produrre nuovi contraccolpi. E allora più che mai resta viva l’attesa (forse solo millenaristica) di un nuovo presidente Usa nel 2009.