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Intervista a Trita Parsi

Iran: troppa ideologia può scatenare una guerra

4 Dic 2007 - Emiliano Alessandri - Emiliano Alessandri

Poco più di un anno fa, l’esperto di questioni iraniane Trita Parsi concesse ad AffarInternazionali un’intervista che intitolammo “Perché il Machiavelli di Teheran vuole la bomba”. In essa, Parsi invitò a diffidare della rappresentazione di Ahmadinejad come di un “mullah folle”. Quella, Parsi notò, è un’immagine che il leader iraniano ha abilmente costruito per giocare una partita che è in realtà tutta geopolitica.

Rieccoci qui, a distanza di un anno, a parlare di Iran. Al tempo, il governo degli Stati Uniti stava esplorando l’ipotesi di un riavvicinamento diplomatico tra i due paesi. Da allora, non si è però registrato nessun progresso significativo. Anzi, si continua a ventilare l’ipotesi di una soluzione militare.

Si, purtroppo non ci sono stati progressi significativi. Anzi, la situazione ha preso una piega molto preoccupante. La retorica da entrambe le parti si è fatta ancora più aspra e bellicosa. L’affermazione del presidente Bush del gennaio scorso, poi ripetuta in altre sedi, secondo cui il regime di Teheran è responsabile della violenza e del terrore che imperversano oggi in Iraq, non vanno certo nella direzione di una soluzione del contenzioso tra i due paesi. Quelle dichiarazioni continuano a raffigurare l’Iran come un nemico ideologico degli Stati Uniti e Ahmadinejad come un leader dell’“asse del male”. La questione di linguaggio è fondamentale, perché se si continua ad affrontare la questione iraniana in termini ideologici si va dritti alla guerra.

In un recente articolo apparso su questa rivista, Cesare Merlini lamenta come il dibattito sulla questione nucleare iraniana graviti sempre attorno alla minaccia dell’uso della forza.Vede anche lei dei limiti in questo approccio?

Condivido pienamente le preoccupazioni di Merlini. Sventolare l’opzione militare è altamente controproducente per gli Stati Uniti. Il regime di Teheran si sente alle strette ed è indotto ad esplorare ritorsioni cui non ricorrerebbe altrimenti. In più, se la minaccia esterna aumenta, lo spazio per l’opposizione interna si riduce. Dopo tutto Ahmadinejad sa fin troppo bene che gli Stati Uniti hanno le armi per fare la guerra. Bush ne ha appena fatta una a pochi passi da loro, in Iraq.

Bush però sembra fermo su questo punto. C’è qualche speranza che il nuovo inquilino della Casa Bianca scelga un diverso approccio?

I tre principali candidati democratici – Obama, Edwards e la Clinton – hanno già suggerito un metodo diverso. L’idea è che si possa e si debba iniziare un negoziato con Teheran senza porre precondizioni o almeno senza clausole vessatorie. Obama ed Edwards mi sembrano aver avanzato le proposte più coraggiose finora e vanno lodati per questo. Per loro l’Iran resta un problema, ci mancherebbe. L’obiettivo non è però lo scontro, ma trovare una soluzione al problema.

Chi scarta la soluzione militare spesso insiste sulle sanzioni. L’Unione europea sembra non escludere l’ipotesi di adottare sanzioni unilaterali contro l’Iran, senza attendere il parere del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, dove il sostegno di Russia e Cina potrebbe mancare. Come valuta questa ipotesi?

Molto negativamente. Questo sarebbe un imperdonabile cambio di strategia da parte dell’Europa che ha sempre enfatizzato, e giustamente, il rispetto del diritto internazionale nell’affrontare la questione iraniana, così come altre crisi internazionali. Sarebbe anche controproducente perché indebolirebbe notevolmente la posizione dell’Europa. Il popolo iraniano ha già sofferto quindici e più anni di sanzioni e non hanno quasi mai funzionato; hanno semmai rafforzato il regime, che ha avuto gioco facile nel dipingere l’Occidente come nemico del popolo iraniano. La soluzione è per via diplomatica.

Ma non c’era in fondo un gioco delle parti tra Stati Uniti ed UE dove i primi facevano la parte del “poliziotto cattivo” e l’Europa quella del “poliziotto buono”?

Forse sì, ma questa divisione dei ruoli oggi purtroppo sta sfumando, anche se forse non era poi il migliore degli approcci comunque. Ciò cui assistiamo ora è un irrigidimento dell’Europa proprio quando servirebbe invece uno sforzo negoziale senza precedenti. Se l’Europa procedesse a sanzioni unilaterali senza la copertura della comunità internazionale non sarebbe il segno di una nuova indipendenza europea. Sarebbe semmai la prova che l’Europa non riesce ad emanciparsi dalla strategia degli Stati Uniti.

Crede che una decisione di tale tipo minerebbe non solo l’autonomia, ma anche la credibilità e capacità negoziale dell’Europa?

L’Europa si è caratterizzata in questi anni per un’azione internazionale rispettosa delle norme internazionali vigenti. Un’azione misurata e non arrogante come quella dell’amministrazione statunitense. Purtroppo sembra che vi siano ora dei ripensamenti. Sulla questione iraniana in particolare, l’Europa ha già commesso degli errori. La proposta di negoziato dell’agosto scorso avrebbe costretto il governo iraniano a rinunciare fin da subito ad alcune delle sue politiche in cambio solo di una promessa di accordo sul futuro regime nucleare del paese. Se la diplomazia è usata in questo modo, allora il regime di Teheran è legittimato a sentirsi sempre più isolato. L’Europa perde credibilità come negoziatore e viene accomunato agli Stati Uniti.

Il ministro degli Esteri Massimo D’Alema ha di recente prospettato un maggior coinvolgimento dei paesi asiatici nelle strutture mondiali di governance. Il G8 in particolare potrebbe essere, secondo D’Alema, il forum giusto dove invitare paesi come l’India a discutere dei grandi temi di politica internazionale. Pensa che l’invito potrebbe essere esteso anche all’Iran, in riconoscimento del suo ruolo di potenza regionale?

Ogni apertura da parte dell’Occidente verso l’Iran va nella direzione giusta. Ciò che il governo di Teheran in fondo vuole è il riconoscimento del ruolo regionale dell’Iran in Medio Oriente. Sedere accanto ai “grandi della terra” significherebbe per l’Iran un avanzamento di status e allontanerebbe il rischio di un cambio di regime. Detto questo, la proposta del vostro ministro degli Esteri mi sembra non del tutto disinteressata. L’Italia non siede nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu e probabilmente non vi siederebbe nemmeno se il Consiglio fosse riformato. Mentre l’Italia è nel G8 e tra poco ne avrà la presidenza.

Certo. Ma non crede che il governo italiano sollevi un problema reale quando parla di riforma degli strumenti di governance?

Bisogna porre le basi di un nuovo ordine mondiale. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu non rappresenta più gli equilibri internazionali di oggi. La questione iraniana troverebbe certamente più facile soluzione se le istituzioni internazionali ricalcassero meglio i rapporti di forza attuali nello scacchiere internazionale. Credo che le affermazioni di D’Alema vadano appoggiate nel senso che la questione iraniana va inquadrata nel contesto di un nuovo ordine mondiale del dopo Guerra Fredda che per il momento fatica ad emergere. Gli Stati Uniti sono i primi a opporsi a questa evoluzione, perché trovano più facile usare il loro potere in modo unilaterale. Essi si opporrebbero all’ingresso dell’Iran nel G8, perché la loro strategia per il momento è quella di isolare le potenze rivali invece di renderle partecipi di un ordine mondiale nato su basi condivise.

D’Alema ha anche notato che la politica di non proliferazione, per essere credibile, dovrebbe essere sostenuta da un maggior impegno dei paesi nucleari per il disarmo. Si è espresso inoltre per una revisione parziale del Trattato di non proliferazione che garantisca contro un uso militare di programmi nucleari le cui finalità dichiarate sono invece civili.

Comprendo il ragionamento di D’Alema, ma sono molto scettico. La realtà è che le potenze nucleari non solo non disarmano, ma esplorano pure nuove tecnologie militari nucleari. Allo stesso tempo provano a sbarrare la strada ai paesi che si avvicinano ora all’uso di questa tecnologia. Un buon sistema di non proliferazione dovrebbe riconoscere più pienamente il diritto dei paesi in via di sviluppo di attingere a questa fonte di energia, e al contempo rendere più severo ed efficace il regime delle ispezioni. La storia ci insegna che la proliferazione degli armamenti si scongiura attraverso controlli più efficaci, non mettendo in piedi un sistema iniquo di diritti tra gli Stati. Se una revisione del Trattato di non-proliferazione tiene conto di questo principio, allora è auspicabile.

Il suo recente libro, “Treacherous Alliance”, è stato accolto in modo molto positivo dalla critica. Potrebbe spiegare brevemente quale è la tesi centrale che sostiene?

Di fondo ritengo che nulla si può capire del Medio Oriente oggi se non si comprende a fondo la rivalità tra Israele e Iran. Ed è una rivalità tutta geopolitica, che ha molto poco di ideologico, come invece si è portati a pensare. La mia tesi è proprio questa: bisogna concentrarsi sulla equazione geopolitica nel Medio Oriente e uscire dalla logica dello scontro ideologico.

È uno scontro egemonico?

In ballo c’è l’egemonia sul Medio Oriente. Israele e Iran stanno giocando questa partita da tempo e sono ben consapevoli della posta in gioco. Usano la carta dello scontro ideologico per il suo valore politico, non perché davvero si rappresentano la contesa in questo modo. Il lettore si sorprenderà di quanti scambi sono stati fatti sotto banco tra Israele e Iran su varie questioni e non secondarie. Accordi impensabili se lo scontro fosse ideologico e quindi assoluto.

E quale è il ruolo degli Stati Uniti in tutto questo?

Gli Stati Uniti sono una potenza mediorientale a tutti gli effetti e, fino a poco tempo fa, erano l’egemone indiscusso nella regione. Questo li rende parte inevitabile della triangolazione. Ciò che è cambiato dopo la guerra in Iraq è che ora l’egemonia americana in Medio Oriente è molto più debole. L’esito della contesa tra Iran e Israele diventa per loro ancora più cruciale.

Il fatto che lo scontro alla radice non sia ideologico, non esclude però che l’ideologia possa essere deliberatamente usata come arma ulteriore.

L’ideologia può essere uno strumento efficace, ma non lo è ora. L’indebolimento degli Stati Uniti a seguito della guerra in Iraq rende la prospettiva di uno scontro militare molto incerta. Nessuno sarebbe pronto a scommettere sul vincitore di tale conflitto. Il modo migliore per gli Stati Uniti di difendere i loro interessi nella regione è uscire dalla logica dello scontro ideologico. Insomma, valutare ciò che Israele e Iran possono reclamare e concedere come soggetti geopolitici. L’ideologia assolutizza. Bisogna invece che le leadership dei vari paesi ragionino assieme escludendo le soluzioni estreme. Lo scontro ideologico, se ulteriormente inasprito, ci porterà solo alla guerra.

In fondo, però, il suo libro contiene un messaggio di ottimismo. Se lo scontro è geopolitico e non ideologico, una soluzione esiste. Non deve per forza finire con l’eliminazione di uno dei contendenti.

Esattamente. Il governo degli Stati Uniti dovrebbe riconoscere questo dato e farlo suo in un momento così difficile per la sua leadership internazionale. Sarebbe una svolta per la questione mediorientale nel suo complesso.

Come valuta il successo della conferenza di Annapolis? E’ un buon inizio verso una soluzione diplomatica della questione mediorientale?

Ogni accordo va salutato con soddisfazione. Ma purtroppo sono molto scettico su questi sviluppi. Insisto, se la questione mediorientale non è affrontata come una questione di ordine regionale, allora ogni soluzione è precaria. La conferenza di Annapolis escludeva importanti attori regionali, incluso l’Iran. Finché l’Iran è trattato come un pariah, non c’è soluzione non solo per la questione iraniana, ma neanche per quella palestinese. Invito proprio a riflettere che la rivalità tra Iran e Israele è diventato nel tempo il nodo centrale. Bisogna avere il coraggio di scioglierlo.