IAI
La conferenza di Annapolis

Percorso a ostacoli verso la pace in Medio Oriente

23 Nov 2007 - Roberto Aliboni - Roberto Aliboni

Il 27 novembre israeliani e palestinesi si incontrano ad Annapolis, sotto il patrocinio degli Usa, per lanciare un nuovo negoziato. La conferenza è stata fermamente voluta dagli Stati Uniti ed è parte del nuovo approccio che il Segretario di Stato, Condoleezza Rice, sta portando avanti a misura che si affievolisce l’influenza dei neoconservatori sull’Amministrazione, dopo l’estromissione di Rumsfeld. In un primo momento nel luglio 2007, vista la buona socializzazione di Olmert e Abbas nei loro incontri settimanali, la diplomazia Usa cercò di innalzare il tenore dell’agenda introducendo i temi dello status finale e fissando Annapolis come una conferenza definitiva, in cui almeno i contorni dei due Stati sarebbero stati approvati dalle due parti. Poiché, pur restando buona l’interazione fra i due leader, l’accordo stentava a emergere, Annapolis è divenuta una conferenza di apertura.

In questa conferenza le parti faranno una dichiarazione comune sulla cui base inizieranno – con la benedizione della diplomazia internazionale, europea e araba – un negoziato che dovrebbe concludersi in modo positivo prima della fine del 2008, dando così a George W. Bush quell’opportunità di entrare nella storia con la realizzazione dei “due Stati” che Clinton mancò nel 2000. Che esito avrà questa iniziativa? Difficile fare un pronostico: ci sono ottimisti (soprattutto fra i diplomatici) e pessimisti (fra gli analisti). Cerchiamo qui di seguito di ricordare brevemente gli elementi principali dell’iniziativa e metterla nella prospettiva globale in cui la signora Rice la vede, senza troppo avventurarci in profezie.

Percorso di avvicinamento
Le modalità del negoziato e i suoi obiettivi contengono due novità principali, alle quali è in buona parte affidato il successo dell’iniziativa. Lo status finale, innanzitutto, diventa l’obiettivo precipuo e immediato del negoziato; esso non è più la fase finale degli avvicinamenti elencati prima da Oslo e poi dalla Road Map. In effetti, l’avvicinamento si è rivelato un percorso che ha crudelmente esposto il processo di pace ad ogni genere di attentato terroristico, lasciandolo sin troppo facilmente nelle mani dei suoi avversari. Tuttavia, in secondo luogo, le misure di fiducia inutilmente perseguite nel passato attraverso le fasi previste dal processo non vengono del tutto cancellate: le misure e gli obiettivi previsti dalla fase 1 della Road Map saranno negoziati – in quanto essenziali, tecnicamente e politicamente, a qualsiasi status finale – ma parallelamente (e non prima) dello status finale. In questa prospettiva, gli Usa assumono un ruolo arbitrale, riconosciuto dalle parti, che dovrebbe sbloccare il negoziato su tutti gli scogli e i dettagli su cui nel passato si è invece bloccato. Questo arbitrato americano è un’altra novità e, rispetto all’approccio di non interferenza che gli Usa hanno sempre adottato nel passato verso il conflitto israelo-palestinese, segna un innalzamento notevole dell’impegno di Washington se non un vero e proprio salto di qualità.

Sul piano della diplomazia internazionale, l’iniziativa beneficia di un forte appoggio europeo. Ci sono dubbi in Europa (ma ci sono anche al Dipartimento di Stato), ma c’è anche il senso di una sfida che va comunque colta e affrontata con ampia solidarietà.

Non è invece altrettanto chiaro l’impegno degli alleati arabi e della Lega Araba. Le esitazioni provengono da due elementi. In primo luogo, le divisioni dei palestinesi fra Cisgiordania e Gaza, Fatah e Hamas: l’appoggio a Fatah contro Hamas, nel contesto di un’iniziativa Usa esattamente volta a isolare Hamas, ravviva l’opposizione interna ai regimi, ben oltre la cerchia degli islamisti e dei fratelli mussulmani. In secondo luogo, ci sono perplessità sull’esclusione dall’agenda del versante siriano (e libanese) del conflitto: una pace israelo-palestinese che lascia irrisolto il nodo israelo-siriano rischia di inchiodare all’Iran e all’asse sciita una Siria che sembra a esso insofferente e che andrebbe dunque incentivata a staccarsene. Mentre la formula capace di convincere la Siria a partecipare alla conferenza è stata evidentemente trovata (anche perché Damasco nelle ultime settimane sembra aver concepito un suo autonomo interesse ad Annapolis), su Hamas gli arabi si scontrano con una ineliminabile contraddizione: Annapolis è per escludere Hamas e, in pratica, richiede a chi vi partecipa di schierarsi in questo senso. Annapolis si presenta, dunque, con un buon appoggio europeo e uno incerto invece da parte degli arabi.

Incertezza araba
La questione del debole appoggio arabo alla conferenza di Annapolis introduce la terza dimensione di questa iniziativa che conviene sottolineare e che riguarda la valenza strategica che gli USA gli assegnano nel conflitto che li oppone all’Iran e ai suoi alleati regionali, alla mezzaluna sciita da Teheran a Beirut, con i suoi satelliti in Pachistan, Arabia Saudita, Bahrein, Yemen e altri. La nascita di uno Stato palestinese filo-occidentale, in pace con Israele e appoggiato da un numero di paesi arabi moderati taglierebbe l’erba sotto i piedi di Hamas all’interno dell’emirato che gli islamismi palestinesi si sono ritagliati a Gaza e sarebbe una sconfitta per l’Iran di Ahmadinejad. Il processo che si inaugura ad Annapolis è anche il consolidamento del fronte sunnita moderato contro gli sciiti e ha per gli USA un senso globale che si connette alla difficile transizione iniziata con l’occupazione dell’Iraq.

La valenza globale che gli Usa danno al processo di Annapolis, contando sul suo successo, è un proseguimento con altri mezzi della strategia di scontro che l’Amministrazione ha lanciato dopo l’11 settembre. Quella strategia era basata sulla stabilizzazione dell’Iraq e sull’avvio di un processo regionale di democratizzazione. I risultati sono stati più che deludenti e hanno partorito due risposte possibili: una è quella Baker-Hamilton di negoziato regionale, al fine di prendere atto dei nuovi equilibri (precipitati dallo stesso intervento Usa) e, dove possibile, plasmarli; l’altra è quella inaugurata dalla Rice che in definitiva prevede prima o poi un negoziato regionale, ma intende affrontarlo da posizioni di forza. Che questa strategia della Rice abbia finito per rivalutare l’importanza del conflitto israelo-palestinese, ampiamente trascurato invece dall’Amministrazione nella sua fase rampante, è piuttosto ironico (e siccome gli europei lo hanno sempre sostenuto, dovrebbe essere monetizzato nel quadro transatlantico: ma su questo non c’è speranza).

Il tentativo di riprendere in mano un processo trascurato, caricandolo oltretutto di implicazioni globali e strategiche, può essere uno dei rischi del negoziato che inizia ad Annapolis. La prudenza araba, a fronte di un ennesimo fallimento strategico, si può capire. C’è poi chi dubita che una soluzione al problema israelo-palestinese sia prospettabile in una situazione di divisione come quella attuale. Mentre la scommessa americana è che la nascita di uno Stato palestinese vitale apporterebbe benefici concreti e attirerebbe i palestinesi, a cominciare da Gaza, secondo molti lo Stato palestinese nascerebbe screditato, innanzitutto agli occhi dei palestinesi. Ciò rafforzerebbe l’asse del male e manterebbe gli Usa nella spinosa situazione in cui si trovano attualmente.

Infine, c’è chi dubita che un impegno verso la questione israelo-palestinese sia oggi strategicamente rilevante e ritiene invece che abbia preminenza la Siria. Costoro vedono il tentativo di mettere insieme un fronte sunnita moderato, con l’Egitto, la Giordania e l’Arabia Saudita, come una mossa intrinsecamente debole e credono invece che concessioni vadano fatte a Damasco con l’intento di dare ragioni ai siriani di ritirarsi dall’alleanza con Teheran e indebolire il fronte sciita. Questi dubbi sulla politica della Rice sono più forti nei paesi arabi e in Israele che in Europa.

Sfida rischiosa
Il contesto internazionale, come pure quello interno delle due parti negoziali, non è indiscutibilmente favorevole al negoziato. Gli Usa – e l’Europa – stanno prendendo un grosso rischio. Raccogliere la sfida, da parte europea, è inevitabile ed è coerente con le sue alleanze. Raccoglierla però con spirito critico e vigile è doveroso, specialmente in vista dei precedenti di questa Amministrazione. Da un lato, occorre, in positivo, essere pronti a intervenire con idee e supporti ogni volta che il processo di Annapolis lo richiederà, anche in dissonanza con gli Usa. Dall’altra, è necessario che la diplomazia internazionale vigili perché continui a svilupparsi un approccio politico e diplomatico anche nel Golfo, in modo che il negoziato di Annapolis non si risolva in un altro episodio della lotta contro il “male” intrapresa dagli Usa. Insomma, occorre non dimenticare la strategia Baker-Hamilton.