IAI
Israeliani e palestinesi

L’incerto vertice di Annapolis

2 Ott 2007 - Maria Grazia Enardu - Maria Grazia Enardu

Il prossimo mese di novembre, in data non ancora fissata, un imprecisato gruppo di paesi e soggetti si riuniranno ad Annapolis, Maryland, per discutere di una possibile via d’uscita per il conflitto tra israeliani e palestinesi. Non si sa molto altro, ma è ragionevole pensare che ognuno dei convenuti abbia assai scarso intereresse ad adoperarsi per fare passi concreti. Il presidente Bush, oltre all’ordine del giorno dei lavori, ne ha uno proprio ben più corposo: Iraq, Iran, l’ultimo anno della sua presidenza.

In ordine sparso
Del vertice di Annapolis colpisce innanzitutto la collocazione in novembre: ricorda a tutti che il novembre successivo si avvierà verso la Casa Bianca un nuovo Presidente, probabilmente democratico, ma costretto a confrontarsi con problemi “repubblicani”, in politica estera e interna. Il nuovo Presidente, per parecchio tempo, valuterà situazioni, consulterà, aspetterà ad agire, mentre il Medio Oriente diverrà sempre più instabile. E poi magari sarà costretto a una continuità dettata dagli incastri precedenti, come il mantenimento di molte truppe in Iraq.

Chi si siederà intorno al tavolo di Annapolis pensa già alla fase post gennaio 2009, conserverà quindi ogni energia e ogni carta per il gioco successivo. Si cercherà soprattutto di far sbagliare l’avversario (tutti gli altri, non ci sono alleati veri in questa fase), per portare a casa un risultato vendibile alla propria opinione pubblica o spendibile in futuro.

L’Arabia Saudita, se andrà, lo farà soprattutto pensando alla grossa vendita di armi americane che le è stata promessa, al quadro regionale dell’Iran e al fallimento dei suoi sforzi per una coalizione Hamas-Fatah – obiettivo cui non intende rinunciare e fallimento che comunque attribuisce alla durissima politica di Israele verso i palestinesi. Infatti vuole un segnale vero da Israele, come il fermo della costruzione di nuovi insediamenti e della barriera di separazione. Inoltre, considera inaccettabile qualunque cosa si discosti troppo dal suo piano di pace, sottoscritto dalla Lega Araba: ritorno ai confini 1967, salvo aggiustamenti negoziati. La partecipazione dei sauditi è importantissima per Israele, l’equivalente di un riconoscimento de facto da parte del paese che si ritiene custode della tradizione islamica e dei due principali luoghi santi.

La Siria, se invitata, avrà in questo un successo diplomatico di prima grandezza, ma potrebbe non andare se non si parla anche di Golan. La Siria sarà comunque presente anche in absentia, infatti sta girando di nuovo il vecchio detto degli anni ’70: non c’è guerra [contro Israele] senza l’Egitto, non c’è pace senza la Siria. Il ministro degli esteri israeliano, Tzipi Livni, dice di augurarsi di vedere i siriani alla conferenza e, più in generale, raccomanda a tutti i paesi arabi di non essere più palestinesi dei palestinesi, curiosa espressione: quale paese arabo può accettare lezioni di ortodossia filopalestinese da un ministro israeliano?

Rapporto squilibrato
Delicatissimo il rapporto tra Israele e Stati Uniti. La forte intesa tra i due paesi poggia su un rapporto squilibrato, di dipendenza, e i grossi interessi americani non coincidono affatto con gli interessi israeliani, anche se li possono comprendere, temporaneamente. Questo Israele lo sa bene, e meglio degli americani. Da molti anni, una serie di segnali (dal caso Pollard, alla vendita di armi israeliane ai cinesi) ricordano ai vari governi di Israele che l’amico americano è, soprattutto, una superpotenza autoreferente. In Medio Oriente ci sono paesi ben più importanti di Israele, come l’Arabia Saudita, gli Emirati, lo stesso Egitto, paradossalmente anche l’Iran. E l’Iraq o meglio la ricerca di una via d’uscita in quella che è già chiamata la Guerra Lunga.

Israele va ad Annapolis con un corposo lavoro di preparazione. Da mesi, Livni va dicendo che non bisogna avere aspettative irrealistiche, che Israele lavora con Abu Mazen per una dichiarazione di principi – ovvero nulla di concreto o di immediato riguardo alla creazione di uno Stato palestinese unico e vitale. Affermazioni necessarie, mentre i razzi Qassam piovono sulla rabbia di Sderot, e Israele risponde sia a Gaza sia nel West Bank. Ma che riflettono anche la debolezza del governo Olmert. L’attesa per il rapporto finale della Commissione Winograd sulla guerra del Libano 2006 è ormai degna di Godot, Kadima sa che le prossime elezioni lo vedranno molto ridimensionato a favore del vecchio Likud e delle destre, Olmert ha 4 scandali finanziari sul capo. L’unica scelta è quindi cercare di tirare avanti alla meglio, in attesa del 2009 – e poi si vedrà.

Però ora il governo Olmert ha un ministro della Difesa competente, come indubbiamente è Ehud Barak. Ma questa buona notizia ha un risvolto meno rassicurante: le iniziative militari che Barak è in grado di progettare bene, e attuare efficacemente, possono non avere uguale valore politico.

Barak ha inoltre idee strategico-politiche di lungo periodo e di incerto esito, come quella di uno stato palestinese da costituire solo dopo che Israele avrà veramente sigillato i confini. Non con la barriera di separazione (sorpassabile da semplici Qassam) ma con una sorta di mini-scudo stellare, da rendere operativo in 3-5 anni.

Inoltre Barak, che è stato capo di stato maggiore, ma anche membro del Sayeret Matkal, ha portato a termine in settembre una complessa azione militare in Siria: una misteriosa missione di prelievo di campioni nucleari, da parte di commando israeliani, seguita dal bombardamento di un non precisato obiettivo, forse forniture nucleari provenienti dalla Corea del Nord. Barak, da settimane, parla anche di una grande operazione su Gaza, che però rinvia per ragioni politiche, come appunto la conferenza internazionale. Nel frattempo, si susseguono operazioni minori, di routine.

Così Israele si presenta ad Annapolis con una recuperata immagine di efficienza militare, di capacità di interventi precisi e mirati (distanti dagli errori spesso compiuti a Gaza), e soprattutto di alleato cui possono essere affidate missioni impossibili contro stati-canaglia. Fascicolo pesante che spera atterri anche sulla scrivania presidenziale post 2008.

La posizione di Abu Mazen
La road map è sepolta, il Quartetto è un fantasma, Blair pare lavori in grande riservatezza, le svariate visite del Segretario di Stato Rice a Israele e Autorità Palestinese hanno concluso davvero poco. Certo, l’Iraq ha un peso specifico enorme, ma la mancanza di applicazione dell’amministrazione Bush alla questione di Israele e Palestina è memorabile e non sarà certo Annapolis a cambiare le cose. L’obiettivo minimo ed evidente è quello di indebolire Hamas e rafforzare Abu Mazen, e il rilascio di prigionieri palestinesi detenuti da Israele è un sostegno.

Ma rafforzare Abu Mazen per cosa, esattamente? Egli non può firmare un accordo che sia inviso ai palestinesi, infatti quando parla di possibile accordo aggiunge subito la parola referendum. I palestinesi, assieme ai paesi arabi, vogliono innanzitutto uno Stato vitale e il ritiro di Israele ai confini ante-67, lasciando al vero negoziato una soluzione accettabile per Gerusalemme e la questione dei profughi.

L’agenda di Annapolis deve comprendere tutti i temi importanti, escluderne uno o più significa fallire prima ancora di sedersi. Ma ci sono questioni che, se anche tenute fuori, sono determinanti, essenziali. Israele tratta con Abu Mazen e Olp, che ha riconosciuto Israele, non con Hamas (anche se pare ci parli sottobanco, il che è segno di realismo). Ma molti palestinesi, non solo di Hamas ma anche del Fatah, sono assolutamente contrari al riconoscimento che Israele vuole, non solo dello Stato di Israele, ma del suo carattere ebraico. Per i palestinesi, questo equivale ad accettare che gli arabi cittadini di Israele, gli “altri” palestinesi, diventino stranieri in quello che è pur sempre il loro Stato, categoria diversa da quella dei cittadini ebrei, con conseguenze incalcolabili.

Quello di Annapolis è quindi un incontro di esito totalmente incerto, ma dalle posizioni che ogni parte, presente o assente, prenderà e dalle sfumature che sarà possibile intravedere, si comincerà a capire cosa accadrà a partire dal novembre che conta, quello del 2008. Rice ha detto che per gli americani il fallimento non è un’opzione. Ha detto bene, ma lo stesso pensano tutti i principali attori in scena, con priorità ed aspettative assolutamente divergenti.