Hamastan contro Fatahland: un’opportunità o un errore?
La rottura fra Hamas e Fatah, dopo la breve e fallita esperienza del governo di unità nazionale, ha riportato alla ribalta la Palestina e il conflitto israelo-palestinese. La rottura si è manifestata con l’espulsione da Gaza manu militari delle forze di Fatah da parte di Hamas. La divisione che ne è risultata, fra un “Fatahland” in mano al presidente Mahmoud Abbas e alle forze di Fatah, e un “Hamastan”, in mano al primo ministro Haniye e ad Hamas, è vista da Stati Uniti, Israele e una parte di Stati europei come un’opportunità per isolare definitivamente Hamas nella striscia, e incoraggiare un accordo fra il Fatah di Abbas e Israele. Viene vista, invece, da altri Stati europei e occidentali come uno sviluppo che può portare a un’ulteriore radicalizzazione palestinese e aggravare una situazione regionale già molto tesa, senza peraltro apportare nessuna soluzione sostenibile al conflitto israelo-palestinese.
Questa seconda scuola di pensiero è emersa fra i governi d’Europa sin dal giorno dopo la vittoria elettorale di Hamas, nel gennaio 2006, ma è rimasta in sordina, lasciando che nel Quartetto l’Ue sostenesse in pieno la linea intransigente degli Usa e la condizionalità imposta ad Hamas (riconoscimento dell’esistenza di Israele, rinuncia alla violenza, accettazione dell’acquis di Oslo). Gli Stati europei preoccupati degli effetti negativi di questa intransigenza hanno poi salutato favorevolmente il governo di unità nazionale, mediato dall’Arabia Saudita, nella convinzione che esso offrisse alla diplomazia internazionale l’occasione di far emergere in campo palestinese le condizioni per una ripresa di contatto con Israele. Ma, sia pure fra qualche insubordinazione sparsa, questi Stati europei si sono poi appiattiti sulla consegna di non avere contatti con i membri del governo di unità nazionale appartenenti a Hamas. Privo del necessario incoraggiamento internazionale, il governo degli islamisti palestinesi è naufragato prima sul piano politico e poi sotto le provocazioni delle correnti più oltranziste di Fatah nella striscia di Gaza che, alla fine, hanno attirato da parte di Hamas una risposta militarmente vittoriosa, politicamente forse disastrosa.
Questo sviluppo non poteva che far riemergere il contrasto di linee appena sottolineato, che però questa volta si è manifestato meno sommessamente per mezzo di una lettera aperta indirizzata a Tony Blair – in quanto nuovo “inviato speciale del Quartetto – da parte dei dieci ministri degli Esteri del “gruppo dell’olivo” (i ministri Ue dei paesi dell’Europa meridionale), riuniti il 6 luglio scorso a Portoroz (Slovenia) per il loro annuale incontro informale. La lettera ha provocato infiammate polemiche in Italia contro il ministro degli Esteri D’Alema, accusato di sostenere l’apertura verso Hamas malgrado questa organizzazione si rifiuti, più di ogni altra cosa, di riconoscere l’esistenza di Israele.
Riconoscimento ex ante o ex post?
Il rifiuto di Hamas di riconoscere Israele deve essere valutato alla luce dell’insieme degli sviluppi che hanno portato alla situazione attuale. La storia della decolonizzazione e la logica insegnano che il riconoscimento reciproco delle parti è il risultato e non una condizione preliminare del negoziato. Nel caso specifico, questo reciproco riconoscimento c’è stato con i negoziati segreti che portarono agli accordi di Oslo. Sappiamo, tuttavia, che dopo il naufragio di Oslo a Camp David nel 2000, Israele è andato, con la politica di ritiro unilaterale di Sharon, verso l’ennesimo tentativo di fare come se i palestinesi non esistessero. D’altra parte, in Palestina si è rafforzato il partito di quelli (tanto islamisti quanto nazionalisti) che non avevano mai approvato gli accordi di Oslo. Come altre volte nella storia della decolonizzazione, è successo che il riconoscimento è venuto meno e, malgrado in Occidente si pensi che sia venuto meno solo da parte palestinese, in realtà è venuto meno da entrambi le parti e ormai da un bel pezzo.
La posizione di rifiuto di Hamas è comunque contorta e deplorevole, ma occorre riconoscere che Hamas non è il solo a non voler negoziare. La posizione occidentale è ambigua e nasconde questa ambiguità dietro il rifiuto di Hamas. La comunità internazionale non dovrebbe semplicemente prendere atto del rifiuto di Hamas, ma mettere in atto le condizioni perché questo rifiuto inizi a disgregarsi. Questa è la linea, un po’ troppo inespressa, di alcuni europei. Non è però la linea del governo di Israele e degli Usa.
In Israele non sono pochi quelli che ritengono utile avviare contatti con Hamas, perché il partito islamista apparirebbe più idoneo dell’ormai atomizzato Fatah a tenere poi fede agli accordi fatti. La maggioranza degli israeliani, tuttavia, non appare pronta a fare i sacrifici che ha così lungamente aggirato nei seguiti degli accordi di Oslo e che un’intesa con Hamas oggi richiederebbe. La scelta che questa maggioranza sta facendo è in forte sintonia con quella degli Usa e si basa sulla percezione che la spaccatura fra Hamastan e Fatahland sia un’opportunità da cogliere per fare un accordo con Abbas e lasciare Hamas a bocca asciutta nel recinto di Gaza.
L’inconsueto sostegno che viene offerto ad Abbas in questi giorni (la liberazione dei prigionieri, lo sblocco dei proventi doganali, le armi etc.) è funzionale all’obiettivo di creare consenso popolare a favore di Abbas consentendo una rinascita dell’economia palestinese nelle mani del competente Salam Fayyad e con l’aiuto di Tony Blair (il quale non dovrà occuparsi – come forse pensa l’opinione pubblica occidentale – degli aspetti politici del problema israelo-palestinese onde apportare pace e dialogo, ma solo di ristabilire l’economia e il buon governo a Ramallah e integrare, per quanto possibile, la Palestina nel benefico flusso globale).
La gestione politica resta nelle mani di Israele e degli Usa. Israele vede nel debole Abbas l’occasione di fare con i palestinesi quel tipo di accordo che la destra israeliana ha sempre sognato di fare: dei palestinesi “autonomi” in una serie di riserve territoriali. Gli Usa vedono in un simile accordo, e nella sconfitta, alla fine anche militare, di Hamas, un passo significativo della più generale guerra al terrorismo che essi stanno combattendo in tutto il Grande Medio Oriente e che finora hanno largamente perso. Sempre in questa prospettiva, hanno proposto, e il Quartetto ha approvato, una conferenza di tutte le parti, esclusa naturalmente Hamas, che alla fine dell’anno consolidi e riconosca a livello internazionale il cambiato regime di Ramallah.
Accordo dannoso
Questo accordo non potrà essere sostenibile e porterà altri danni. Quegli Stati, anche europei, che lo stanno perseguendo – o lasciano senza obiettare che gli Usa e Israele lo perseguano – danno prova di grave miopia. Perciò, i dieci ministri europei dell’Ue meridionale consigliano di non mettere Hamas con le spalle al muro e sembrano ritenere – così si è successivamente espresso il ministro D’Alema – che il rischio sia quello di far cadere Hamas nelle braccia di Al Qaeda. Ma il rischio è piuttosto un ritorno del terrorismo resistenziale – questa volta non solo contro gli israeliani ma anche i “collaborazionisti” e non una nuova succursale di quello jihadista. Inoltre, Hamas non si rivolgerà ad Al Qaeda ma all’Iran e, se nel frattempo, gli Usa non avranno raggiunto un accordo con Teheran, la situazione regionale sarebbe destinata a peggiorare ulteriormente.
Bene hanno fatto dunque i dieci ministri a protestare. Forse avrebbero dovuto farlo nel Consiglio Europeo e nelle cancellerie invece che sui media, con una netta presa di posizione invece che con le amabili parole che hanno usato in quella lettera. Avrebbero dovuto farlo con delle proposte più coerenti, poiché – curiosamente – la lettera, prima di consigliare un atteggiamento diverso verso Hamas, conviene che la spaccatura Hamas/Fatah è un’opportunità (d’altra parte questo non stupisce chi ricorda il coro belante delle lodi all’epoca del ritiro unilaterale da Gaza). Infine, fino a che punto i dieci ministri hanno firmato un consapevole atto politico? D’Alema lo ha sostenuto anche al ritorno da Portoroz. Il ministro Amado, in quanto rappresentante della Presidenza portoghese dell’Ue, nell’inaugurare i lavori del Quartetto a Lisbona il 19 luglio scorso ha invece condiviso le dichiarazioni della Rice dicendo di non vedere le condizioni per un contatto con Hamas. Dunque, la protesta dei dieci ministri è destinata a restare nel limbo. Essa esprime bene la debolezza degli europei, che non sta tanto nelle loro istituzioni, ma nella loro assenza di coesione. Per cui, qualunque sarà la politica verso Hamas e il conflitto israelo-palestinese, essi continueranno a fare da coro a questa politica, sia pure con un interessante gioco delle parti fra gli stessi corifei.