Da una difficile crisi ad alternative problematiche
Il governo di Ehud Olmert aspetta un anniversario. In verità, quest’anno gli anniversari sono diversi: 40 anni dal 1967, 30 anni dalla inattesa visita di Sadat a Gerusalemme che portò alla pace con l’Egitto. E poi anche 60 anni dal voto dell’Onu per la creazione in Palestina di due Stati.
Ma l’anniversario più cruciale è anche il più corto, un anno dalla fine della Seconda guerra del Libano, e coincide con la pubblicazione, prevista in agosto, del rapporto finale della Commissione di inchiesta Winograd, dopo un rapporto ad interim che ha fortemente scosso l’opinione pubblica e messo sotto accusa politici e militari per la preparazione e conduzione della guerra contro Hezbollah. Il rapporto finale chiuderà un anno di shock, quasi un lutto nazionale, su una vicenda cominciata con il rapimento di due soldati e gestita male dal governo e dai militari che ne hanno forzato le decisioni.
Indecifrabile Olmert
Ehud Olmert, personalità grigia, mediocre sindaco di Gerusalemme, ex “giovane principe” del Likud, era stato scelto come vice di Sharon solo perché considerato meno problematico di altri. Dopo l’uscita di scena di Sharon nel gennaio 2006, Olmert diviene primo ministro, ma senza avere alcuna delle qualità, anche negative, del suo ingombrante predecessore. Nessuno ha mai veramente capito cosa volesse fare Sharon dopo il ritiro da Gaza e riguardo al West Bank. Ma qualunque fosse il suo disegno, si era liberato dell’ingovernabile Likud e aveva fondato Kadima.
Due mesi dopo, Olmert vince le elezioni di misura, senza un vero programma (Kadima non lo aveva, bastava Sharon), tanto più che né i laburisti né il Likud riescono a imporsi e moltissimi voti vanno ai partiti minori. Subito Olmert promette improvvidamente agli israeliani un paese felice, in cui sarà bello vivere e soprattutto lancia l’idea della “convergenza”, del riallineamento del confine del West Bank. Sono solo parole: il ritiro da Gaza era costato cifre enormi, ma nel bilancio del 2006 non vengono previsti stanziamenti per preparare uno sgombero anche parziale dal West Bank, dai costi colossali.
Ha dovuto affrontare crisi gravissime. La guerra del Libano, che non è stata vinta, perché condotta male e perché Israele non può permettersi lunghi conflitti che coinvolgano pesantemente il fronte interno e costringano l’esercito a subire iniziative altrui.
La guerra di Gaza, che continua tra lanci di Qassam su Sderot e domani su Ashkelon, e reazioni israeliane in crescendo. Olmert ha continuato la politica post 1995: non c’è nessuno con cui negoziare, Hamas non è un interlocutore e comunque non si vuole un vero ritiro dal West Bank. È vero che Hamas non vuole riconoscere Israele, ma deve governare, quindi ha bisogno di soluzioni pragmatiche. Si negozia soprattutto con i nemici e il riconoscimento è nella firma dell’accordo.
Olmert cerca anche di ignorare il piano saudita, lanciato nel 2002 e riproposto nel 2007: pieno riconoscimento del mondo arabo a Israele in cambio di un sostanziale ritorno ai confini ante 1967, piano che andrebbe esplorato con cura e da un Governo forte. Ma questo è un Governo debole, che ha attivamente incoraggiato la guerra civile tra i palestinesi, boicottato Hamas senza sostenere Abbas, e riuscendo così a rafforzare gli estremisti o i disperati, gli ingovernabili disposti a tutto.
Olmert ha raggiunto nei sondaggi un traguardo forse unico: un indice di popolarità del 2%, minore addirittura del margine di errore della rilevazione. La sua sopravvivenza politica dopo l’estate del 2006 è dovuta anche alla crisi dei laburisti, in caduta libera nei sondaggi, e che stanno per eleggere un nuovo leader, tra Barak e Ayalon, già capo dello Shin Bet e iniziatore, assieme al palestinese Nusseibeh di un piano di pace simile al piano saudita. Il Likud di Netanyahu aspetta pazientemente, con una linea di durezza totale contro Hamas, ma riprende anche la formula di Sharon di “grandi sacrifici” territoriali, senza quantificare. Nel frattempo sale nei sondaggi e vincerà agevolmente le prossime elezioni.
L’apertura alla Siria
L’offerta di Olmert alla Siria di negoziati sulla base di una eventuale restituzione del Golan serve per recuperare un minimo di iniziativa politica: il Golan, annesso nel 1981, ha acqua e boschi, ma pochi abitanti e pochi coloni, e soprattutto non ha il forte connotato nazional-religioso di Giudea e Samaria. Mettendo sulla bilancia i pro e i contro, la mossa conviene, sposta l’attenzione e comunque, viste le scadenze, promette di finire nel nulla, almeno per quanto riguarda Olmert. L’imminente visita di Olmert a Washington discuterà anche di questo, ma si sa già che gli americani vorrebbero negoziati coi palestinesi e non con i siriani.
Tra pochi giorni Israele avrà un nuovo presidente della Repubblica e i laburisti avranno un nuovo capo, con conseguente rimpasto di Governo: tra poche settimane arriverà un rapporto Winograd che si preannuncia durissimo e per di più Olmert ha anche l’assillo di inchieste per reati finanziari. Ma il suo governo potrebbe essere tenuto in piedi da circostanze politiche oppure, e questa è la variabile che può impazzire, militari.
È possibile una riedizione del governo Olmert, ma spostata a destra, senza i laburisti. Nell’ottobre 2006 è entrato nel Governo Israel Beitenu, partito degli ebrei russi con un leader, Avigdor Lieberman, che fa spesso dichiarazioni dirompenti e non teme certo il rapporto Winograd. Potrebbe ora prospettarsi l’ingresso del Likud con portafogli chiave, con o senza gli ultraortodossi (i sefarditi di Shas, non gli aschenaziti che di solito si limitano all’appoggio in Knesset). Un governo di attesa delle elezioni americane anzi dell’insediamento del nuovo presidente nel gennaio 2009 e di un avvio di una (nuova?) politica mediorientale. Due o tre anni di stagnazione come obiettivo minimo.
Kadima eviterà le elezioni anticipate, sa bene che avrebbe un crollo, ma un Governo di condominio tra Olmert e Netanyahu vedrebbe quest’ultimo in predominio, qualunque sia il suo ruolo ufficiale. Se Olmert dovesse uscire presto di scena (Winograd o inchieste finanziarie) Kadima potrebbe ricorrere a Tzipi Livni, pur di non indire elezioni, e un governo Livni-Netanyahu promette di essere interessante, visto che la signora passa per essere relativamente moderata, ma è cresciuta in una famiglia che militava nell’Irgun.
Palestinesi divisi
Ma il 2009 avvia anche altre scadenze: l’elezione di un nuovo presidente palestinese (Abbas ha detto di non volersi ricandidare) e poi le elezioni del parlamento dell’Autorità Palestinese. Due anni di immobilismo politico e di violenze possono solo rafforzare Hamas, e appare improbabile che Fatah riesca a risolvere le divisioni interne. E se Hamas cresce non per capacità di governo ma per disperazione dei suoi elettori, in assenza di prospettive diverse, si rischia molto, dentro e fuori di Israele-Palestina.
Ben più angoscianti sono le circostanze militari e senza nemmeno tirare in ballo l’Iran. La guerra del 2006 si è conclusa, per gli israeliani, con una forte voglia di rivincita (sentimento che rispecchia, in proporzione diretta, la percezione della sconfitta). Solo l’interposizione delle truppe internazionali tiene a bada gli incidenti di confine e comunque Hezbollah è solita usare bene il tempo. E da subito, soprattutto tra i militari israeliani, si è parlato di una nuova guerra nell’estate del 2007, con lo scenario dell’incidente, dell’errore, dell’escalation che non si vuole fermare: in pratica una replica degli eventi del 2006, ma con un esito che si vuole diverso.
Lo scenario può rivelarsi del tutto irreale, ma reali sono le forze che lo disegnano, con motivazioni irrazionali perché la ragione dice, a tutti, dentro e fuori Israele, che questa è follia.La grande maggioranza del paese vuole una pace, vuole il ritiro dal West Bank e vuole due Stati, punto. Ma non ha una classe politica in grado di affrontare questioni così vitali, senza affondare negli scandali e nella paralisi. Infatti, appena si cerca di discutere di una vera pace, le divisioni e le manovre politico-nazionaliste-religiose bloccano tutto. Nessun governo Olmert può avviarsi su questa strada, se non a parole e per prendere tempo.
Pian piano si delinea, fuori Israele, ma anche dentro, uno scenario impensato fino a un anno fa. Un forte e cogente intervento americano post 2009 (con o senza altri, compreso il fantomatico Quartetto con Europa, Russia, Onu), avviato con un impegno costante in tutta l’area, una shuttle diplomacy degna di un Kissinger o di un Baker, per sostenere e reinterpretare la proposta saudita e il piano di Ginevra di Ayalon e Nusseibeh. Una soluzione letteralmente imposta alle parti, con ampio uso di bastoni e carote. Ma i tempi per questo sono più lunghi di un governo Olmert.
Ogni tanto spunta timidamente l’idea di una tregua (lunga). La propone Hamas e per Israele è anatema, ma una forte iniziativa diplomatica esterna può lavorarci sopra. Una tregua che sia cessazione della violenza ma, soprattutto, riavvio di un minimo di normalità per dare ai palestinesi respiro e qualcosa da perdere, e che crei quindi un orizzonte di negoziato. E dia tempo agli israeliani per capire che Hamas è al Governo: si può solo decidere se continuare a rafforzarlo o no, e per indebolirlo bisogna fare concessioni. Ovvero l’esatto opposto di quanto fatto finora.
Tempo che permetta anche a Israele di riesaminare le priorità, e magari di veder emergere personalità politiche in grado di guidare il paese e soprattutto di ispirarlo. L’elettorato di Israele è in larghissima maggioranza di centro (comprese la destra e la sinistra moderate), non vuole altre avventure e non crede più all’unilateralismo. Vuole sicurezza, ma anche soluzioni. Ha bisogno di un Ben Gurion, di un Rabin, al limite si accontenta di un Eshkol – ma non di Ehud Olmert. Rimane da vedere se la sua uscita di scena sarà morbida o se difenderà fino all’ultimo la sua trincea, politica e umana.