Una crisi potenzialmente pericolosa per Europa e Medio Oriente
La crisi costituzionale turca, qualunque sarà il suo sbocco, comporta un impatto rischioso, se non negativo, per la sicurezza dell‘Europa e più in generale dell’Occidente. La crisi nasce dalla disfunzione dei meccanismi di mediazione destinati a consentire la transizione dall’originario nazionalismo kemalista, con il suo esclusivismo laicista, a una democrazia inclusiva delle vaste masse religiose del paese. Questa mediazione è affidata a fattori interni ed esterni.
Equilibrio compromesso
Fra i fattori interni, è di grande importanza la rassicurazione degli entranti nei confronti degli uscenti. Questa rassicurazione è stata sostanzialmente perseguita dal governo Erdoğan. Quest’ultimo ha comprensibilmente rivendicato e cercato di realizzare riforme in linea con le sue finalità ideologiche, come nel campo dell’istruzione, senza però mai fare mancare un certo equilibrio con lo spirito laico della repubblica, i ceti nazionalisti e i loro interessi. Tale equilibrio è venuto meno con la rivendicazione della presidenza della Repubblica, da parte di un partito che detiene già tutte le massime cariche dello Stato (il primo ministro, il presidente dell’Assemblea nazionale, il ministro degli Esteri).
La percezione di schiacciamento da parte dei nazionalisti, e più in generale dei turchi in qualche misura interessati al mantenimento di uno Stato secolare (le donne, i liberali, etc.) è diventata a questo punto sovrastante e si è perciò rotto l’equilibrio della difficile e tesa transizione in atto dall’arcaica democrazia modernista di Atatürk alla democrazia postmoderna di tipo europeo verso cui la Turchia odierna sta tendendo. Non è detto che questa rottura sia recuperabile.
Fra i fattori esterni è d’importanza capitale il ruolo dell’Ue. Quest’ultima ha stimolato e appoggiato il programma di democratizzazione del partito di Erdoğan ma, a causa delle sue ambiguità, ha fatto mancare ai nazionalisti, in particolare ai settori laici democratici, alle donne e ai liberali la garanzia dell’inclusione della Turchia nell’Unione, antidoto sicuro all’ascesa per via democratica di un regime religioso integralista e quindi non democratico. Anche qui, non è detto che l’Ue receda dalla miope politica che sempre più caratterizza la sua posizione verso la Turchia e gli sviluppi della crisi costituzionale potrebbero rendere l’Europa ancora più miope.
Radicalizzazione possibile
Se il meccanismo di mediazione mancherà di ricostituirsi dopo la crisi di questi ultimi giorni, la transizione non sarà più possibile e si assisterà a una radicalizzazione delle posizioni dei nazionalisti, da una parte, e dei religiosi, dall’altra, con gravi lacerazioni in tutti quei ceti che desiderano staccarsi dal nazionalismo senza però rinunciare al fondamentale carattere secolare dello stato che il kemalismo ha assicurato.
È questa possibile radicalizzazione che è all’origine dei rischi per la sicurezza dell’Europa che abbiamo evocato all’inizio. Tali rischi non nascono con la crisi, ma quest’ultima li fa più evidenti e probabili. Vale la pena evocarne due: quello che potrebbe provenire dall’evolvere in senso nazionalista della posizione turca nel quadro della crisi irachena e quello che potrebbe provenire dall’impatto dell’evoluzione turca nei confronti dei partiti e movimenti islamisti che oggi operano nel mondo arabo-musulmano con prospettive democratizzanti.
In generale, il vuoto dell’Iraq ha già contribuito a determinare il prevalere di tendenze radicali nei paesi vicini, a cominciare dall’Iran, dove questo vuoto assieme ad altri fattori ha riportato al potere i conservatori con Ahmadinejad. Nell’ambito della crisi irachena, l’evoluzione indipendentista del Curdistan suscita preoccupazioni in Siria e Iran, a causa della presenza in questi paesi di minoranze curde; ma tale preoccupazione è ovviamente ben più forte in Turchia, sia per la protezione – intenzionale o no – che il Curdistan accorda al Pkk e, quindi, alla sovversione che questo partito esercita fra i curdi di Turchia, sia per la tendenza indipendentista in sé, che promette di essere ancora più disgregatrice del Pkk.
In questo medesimo quadro, la Turchia osteggia le pretese dei curdi su Kirkuk (e la sua area petrolifera) giustificando la sua posizione con la preoccupazione per la pulizia etnica che effettivamente i curdi stanno compiendo nella zona a danno dei turcomanni – cittadini iracheni di origine turca – e degli arabi. A metà aprile, il capo di stato maggiore turco ha lanciato un severo avvertimento alle autorità curde in merito ai rischi che l’evoluzione nel Curdistan pone alla Turchia, secondo i militari di Ankara.
Finora, la radicalizzazione dei nazionalisti turchi e dei militari è stata tenuta a bada dalla dinamica equilibrata della transizione turca. Il venir meno di questa dinamica equilibrata, oltre a portare alla radicalizzazione dei nazionalisti dall’interno, farebbe venir meno l’argine alla radicalizzazione che proviene alla Turchia dal vuoto iracheno. In altri termini, la questione curda e quella di Kirkuk potrebbero funzionare sia come pretesto per una rude riaffermazione dell’ordine kemalista ad Ankara, sia come causa effettiva di un irrigidimento nazionalista della Turchia che metterebbe all’angolo qualsiasi prospettiva di democratizzazione e porterebbe ad una rottura con Bruxelles.
Tra Curdistan e Iraq
Quale sarebbe l’esito di una radicalizzazione del partito religioso turco nei confronti del Curdistan e dell’Iraq? La politica di Erdoğan e del suo partito verso i curdi, sia turchi sia iracheni, è stata piuttosto inconsistente. Nei confronti della componente curda i religiosi sono in principio più pronti ad un’apertura dei nazionalisti, ma questa posizione di principio non si è mai tradotta in politiche pertinenti, anzi nella grave crisi che c’è stata all’inizio del 2006 nell’area di Diyarbakir – chiaramente egemonizzata dal Pkk – il governo Erdoğan si è mostrato del tutto evanescente.
Perciò, se i nazionalisti rischiano di complicare la crisi irachena con un qualche intervento oltre le righe, la politica sotto le righe dei religiosi verso una questione che indubbiamente un rilievo nazionale lo ha e richiede risposte urgenti e solide rischia di complicare le cose per la sua debolezza. La nozione – ribadita dal rapporto Baker-Hamilton – sulla quale oggi si basa la sicurezza europea e occidentale è che la Turchia è un forte vicino dell’Iraq, certamente in grado di contribuire al contenimento della crisi irachena e, a più lungo termine, alla stabilizzazione dell’Iraq. Con la radicalizzazione della lotta politica in Turchia e la polarizzazione fra religiosi e nazionalisti, la Turchia potrebbe invece essere portata a esercitare un ruolo negativo o inconsistente nei confronti dell’Iraq. Questo accrescerebbe i rischi per la sicurezza dell’Europa e dell’Occidente.
L’altro problema riguarda l’evoluzione dei partiti e movimenti islamisti, così detti “moderati”, in molti paesi arabi del Mediterraneo: Marocco, Egitto, Giordania. Per i partiti islamisti arabi democratizzati il successo di un’integrazione dei religiosi, fermo restando il quadro secolare della Turchia, è un esempio importante e, al tempo stesso, un ingrediente essenziale della prospettiva di stabilizzazione e “governance” regionale che l’Occidente da almeno un decennio si pone nei confronti di questa area. Il fallimento della transizione turca, nel contesto della radicalizzazione politica che ora si profila, indebolirebbe gravemente le politiche europee di stabilizzazione e promozione della democrazia verso il Mediterraneo e il Medio Oriente più in generale, portando a una radicalizzazione dei moderati e quindi a un accrescimento dei rischi.
Dunque, la radicalizzazione della lotta politica in Turchia non è favorevole alla sicurezza europea e rischia, in questa fase, di contribuire al caos che regna nel Medio Oriente. Più in generale, si deve dire che, se la Turchia non viene integrata – con la sua democratizzazione e l’inclusione nell’Ue – diventa allora un grave fattore di turbolenza. Per cui, la crisi costituzionale in corso ad Ankara non è solo un episodio interno che riguarda quel paese, ma una sequenza che riguarda l’Europa e la sua sicurezza assai da vicino.