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Medio Oriente

A Sharm el-Sheik un insuccesso che preoccupa

7 Mag 2007 - Roberto Aliboni - Roberto Aliboni

L’attesa conferenza bicipite di Sharm el-Sheik si è conclusa con lo scontato successo della riunione per il così detto International Compact for Iraq (ICI) del 3 maggio e un risultato invece sostanzialmente deludente dell’incontro ministeriale del giorno successivo. L’ICI è un piano quinquennale di ricostruzione e sviluppo, sponsorizzato dall’Onu e appoggiato dalla Banca Mondiale, che l’Iraq ha lanciato nel luglio del 2006 con l’intento di ottenere aiuti internazionali e cancellazioni del debito come indispensabile fattore di ricostituzione della sicurezza e dello sviluppo del paese. La riunione di Sharm el-Sheik ha raccolto ben 30 miliardi di dollari Usa fra aiuti e remissioni. L’Italia è impegnata a condonare 2,4 miliardi di debito, a concedere 270 milioni di dollari per la ricostruzione civile e addestrare due battaglioni militari e 10.000 poliziotti. Così, l’ICI é effettivamente decollata.

La conferenza ministeriale è anch’essa un’iniziativa del governo iracheno, che ha però una finalità squisitamente politica, cioè di ottenere la solidarietà dei vicini regionali al fine di assicurare l’integrità del paese e aiutarlo a porre termine ai confitti interni che lo dilaniano. La conferenza fa seguito a quella che si tenne Baghdad il 10 marzo scorso (si veda l’articolo “Medio Oriente: la diplomazia torna in campo” pubblicato su Affarinternazionali del 14 marzo 2007) con l’intenzione di aprire un processo di dialogo e negoziato, grazie in particolare all’apertura di contatti fra gli Usa, da una parte, e Iran e Siria, dall’altra.

La conferenza di Baghdad si tenne a breve distanza dalla pubblicazione del rapporto dell’Iraq Study Group – la commissione “bipartisan” presieduta dai senatori James Baker e Lee Hamilton – che aveva suggerito un’iniziativa diplomatica degli Usa a tutto campo verso i due avversari chiave, Iran e Siria, in vista di apportare una soluzione al conflitto iracheno passando per la sua dimensione regionale.

L’interesse da parte dell’amministrazione Usa alla conferenza fu perciò interpretato dalla generalità degli osservatori come l’inizio di un processo diplomatico multilaterale idoneo a sbloccare a monte i contenziosi regionali esistenti e creare le premesse per avviare a termine i conflitti in Iraq. La conferenza sembrò poter essere una svolta nella politica dell’amministrazione Bush.

Nulla di fatto
In realtà, nessuna prospettiva si è aperta nella conferenza. Il contatto fra la Rice e il ministro degli Esteri siriano, Walid al-Muallim, è stato nient’altro che un breve riepilogo delle rivendicazioni e aspettative reciproche, e quello con il ministro degli Esteri iraniano – malgrado le astuzie protocollari degli anfitrioni egiziani – si è ridotto a qualche convenevole fra i componenti delle due delegazioni.

Non poteva essere altrimenti, posto che la conferenza di Sharm el-Sheik non è stata preceduta da nessun processo diplomatico volto a preparare qualche risultato. L’idea suscitata dalla convocazione della conferenza di Baghdad, che l’amministrazione Bush avesse cambiato rotta e intendesse adottare i suggerimenti della commissione Baker-Hamilton, si è rivelata sbagliata. Si intuì a Baghdad e si è avuta la conferma a Sharm el-Sheik che l’Amministrazione intende avere niente di più che un’occasione per chiedere a Damasco e Teheran di astenersi dall’appoggio materiale che essa crede i due paesi provvedano alle fazioni in Iraq, e non per avviare più generali colloqui sui rispettivi interessi e punti di vista nella regione. Quando, qualche mese fa, il Dipartimento di Stato diceva che nella conferenza si sarebbe strettamente attenuto all’Iraq diceva la verità. È chiaro che questo non soddisfa né interessa Iran e Siria.

Dunque, la conferenza ministeriale di Sharm el-Sheik lascia la crisi irachena, nella sua essenziale dimensione regionale, intatta. Essa ha fatto venir meno la speranza che ci fosse una svolta nel momento in cui emerge invece con chiarezza il fallimento del “surge” militare lanciato alla fine del 2006 dall’amministrazione Bush, con la convinzione che l’intensificazione dell’intervento potesse finalmente contrastare e ridurre tanto le resistenze quanto le guerre settarie.

Effetti a catena
Appare con altrettanta chiarezza l’irrimediabile debolezza e inettitudine del governo al-Maliki, che da ultimo non sa o non vuole mettere sul tavolo una convincente legislazione sul petrolio e la suddivisione delle sue ricchezze fra le componenti del paese. Si avvicina, inoltre il referendum su Kirkuk, mentre ai curdi viene lasciata mano libera nell’epurare l’area dagli elettori arabi e turcomanni.

L’evoluzione a Kirkuk e nel Curdistan iracheno avviene mentre in Turchia si è aperta una crisi costituzionale dovuta alla radicalizzazione nei rapporti fra nazionalisti e religiosi. A luglio ci saranno elezioni legislative anticipate. Se la radicalizzazione non sarà fermata, la Turchia, che finora ha agito con cautela e moderazione nei confronti della crisi irachena, potrebbe invece andare ad accrescere il novero degli attori problematici della crisi, accanto all’Iran e alla Siria, ma anche all’Arabia Saudita. Quest’ultima ha minacciato di mandare rinforzi ai sunniti dell’Iraq se la guerra settaria in quel paese non dovesse placarsi: dati i precedenti, questa non sarebbe certo una buona notizia.

L’insuccesso della conferenza di Sharm el-Sheik è preoccupante. Non si tratta solo del perdurare e peggiorare della spaventosa crisi irachena, ma dell’approssimarsi della conflagrazione regionale che questa crisi si porta fatalmente in seno. La Rice ha affinato la tattica dell’Amministrazione senza che siano cambiate le finalità della politica del presidente Bush. Questa politica sta portando fatalmente la crisi irachena a provocare altre crisi nella regione, crisi che toccano gli Stati della regione, ma provvedono anche un incentivo al terrorismo jihadista, cioè a una situazione peggiore di quella attuale e ancor meno controllabile.

Dannose illusioni
I paesi europei e gli altri alleati degli Usa non dovrebbero continuare a illudersi che c’è una diplomazia in atto, che episodi come quello della conferenza di Sharm el-Sheik siano comunque positivi e che basti creare occasioni d’incontro e di dialogo per avviare le crisi a soluzione. I tempi sono ormai ridottissimi e Bush non sembra desistere dal piegare la realtà alle sue visioni. Difficilmente l’azione parlamentare dei Democratici riuscirà a fermarlo.

Politiche come quelle volte a favorire una ripresa del dialogo siro-americano o dare spazio al governo palestinese di unità nazionale nel tentativo di rinsaldare il fronte sunnita moderato non sono destinate a dare frutti tempestivi e sono oggi marginali rispetto all’epicentro iracheno della crisi.

Politiche che potrebbero invece avere un impatto, per quanto anch’esse marginali rispetto alla questione centrale, riguardano la Turchia, la cui crisi deve essere imbrigliata, e lo sviluppo delle stagnanti relazioni con i paesi del Golfo, sia l’Iran sia quelli del Consiglio di Cooperazione del Golfo.

Queste politiche sono fattibili e l’Ue potrebbe concretarle in tempi relativamente brevi. Occorre però unitarietà a livello europeo – piuttosto che sparse iniziative bilaterali – e il coraggio di compiere, se necessario, passi anche alternativi rispetto a quelli dell’amministrazione Bush, almeno per guadagnare tempo in attesa di una possibile vittoria democratica a Washington.