Dopo il vertice di Riyadh, una nuova prospettiva negoziale?
L’atteso vertice della Lega Araba a Riyadh si è concluso il 28 marzo scorso approvando all’unanimità (Libia assente) il piano saudita per avviare a soluzione il conflitto fra arabi e israeliani. Il piano prevede sicurezza e riconoscimento di Israele da parte di tutti i firmatari a fronte del ritiro di Israele alle frontiere del 1967, del riconoscimento di uno Stato palestinese indipendente con capitale a Gerusalemme e di un’equa soluzione del problema dei rifugiati palestinesi. Sebbene il piano sia lo stesso che i sauditi presentarono al vertice arabo di Beirut del 2002, subito respinto dagli israeliani, il contesto in cui viene riproposto è certamente più attraente e significativo. Il significato del piano va quindi considerato con attenzione. Ciò consentirà di argomentare sulle sue prospettive e sul più complesso ruolo regionale che potrebbe giocare.
Segnali di apertura
Il piano saudita è visto dagli israeliani come un “prendere o lasciare”, assortito da condizioni inaccettabili, a cominciare dai rifugiati, il cui riaccoglimento in Israele è respinto, oltre che per ragioni di principio, soprattutto perché il loro numero minaccerebbe il carattere nazionale del paese. Gli Usa convengono con Israele, ma per ragioni di politica regionale desiderano una ripresa del negoziato arabo-israeliano e premono su Gerusalemme perché non lasci cadere l’offerta araba. Perciò, alla fine, Olmert non ha respinto il piano. Ha ribadito che non un solo palestinese sarebbe fatto rientrare in Israele, ma ha anche esortato i leader arabi ad andarlo a discutere a Gerusalemme, sottolineando così, da un lato, l’esigenza israeliana di un segno di riconoscimento preventivo (alla Sadat) e, dall’altro, la necessità che il piano sia inteso come una piattaforma da cui far partire un negoziato.
Secondo molti analisti – anche israeliani – e le dichiarazioni di alcuni esponenti arabi, il piano non è invece un “aut aut” bensì una piattaforma negoziale. L’aspetto più rilevante della piattaforma saudita è il rovesciamento del metodo di Oslo, nel cui ambito c’è stato prima il riconoscimento fra le parti e poi un inconcludente negoziato sui dettagli. Questo metodo è stato individuato da molti arabi e palestinesi come la causa del fallimento del processo. La piattaforma che offre il piano saudita indica i temi essenziali del negoziato (che il processo di Oslo ha certamente avuto il merito di decantare) e, pur lasciandone impregiudicate le modalità crea le condizioni perché possano mettersi al tavolo negoziale anche quelle parti regionali che il processo di Oslo ha alienato o che quel processo hanno sempre rifiutato, a cominciare da Hamas. Ciò rimette in pista la possibilità di un tentativo volto a risolvere il conflitto. Questo è l’aspetto più importate del piano.
Questo rovesciamento della prospettiva di Oslo, mentre riavvicina molte parti arabe al processo negoziale, è però l’aspetto che meno piace agli israeliani, proprio perché rimette in questione il preventivo riconoscimento dato dai palestinesi ad Oslo e sembra dar spazio al rifiuto di Hamas anche solo a considerare tale riconoscimento. In realtà, il piano saudita, com’è inteso dalla maggioranza dei paesi che l’hanno adottato a Riyadh, condiziona sì il riconoscimento, ma lo prevede con chiarezza. La diplomazia saudita ha già inquadrato Hamas nel gregge arabo (e sunnita) con l’accordo dell’8 febbraio alla Mecca. Il vertice di Riyadh ha fatto ora compiere a questo inquadramento un altro passo. È quindi Hamas, almeno in questa fase, ad allinearsi sulla possibilità di un riconoscimento arabo di Israele e non gli arabi a fare propria la posizione negazionista di Hamas.
Quattro più Quattro
Nondimeno, gli israeliani- specialmente sotto la guida di un governo debole come quello attuale – hanno difficoltà ad accettare il piano come piattaforma su cui iniziare un nuovo processo. È qui che dovrebbero intervenire gli attori extraregionali del Quartetto, in sintonia con il Quartetto arabo che si è creato parallelamente negli anni passati (Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Giordania) e i nuovi attori arabi che sembrano intenzionati a entrare nel gioco. Come abbiamo detto, il piano non dice nulla sul modo in cui il negoziato sulla piattaforma possa avvenire: una ripresa del negoziato israelo-palestinese sotto l’egida e la guida dei Quartetti? Una conferenza internazionale a sfondo regionale? Entrambe le cose?
Una ripresa dei negoziati bilaterali non sembra probabile. La formazione di un governo di unità nazionale – non esente peraltro da problemi e fragilità – non è servita a eliminare le pregiudiziali israeliane. Verso questo governo gli Usa appaiono più possibilisti, ma nel complesso è difficile ricomporre le fratture che si sono andate accumulando dalla vittoria elettorale di Hamas nel gennaio del 2006. Una conferenza internazionale volta a ricostituire un quadro generale e rendere possibili relazioni negoziali fra le varie parti in gioco sarebbe forse più idonea, ma non è detto che gli attori extraregionali, in particolare gli Usa, siano pronti ad affrontare assieme al nodo israelo-palestinese anche gli altri nodi della regione, quello libanese e quello siriano. Il piano saudita li contempla, ma una riedizione del processo di Madrid, per quanto in sé e per sé dotata di una sua razionalità, non sembra pronosticabile.
Resta la possibilità che il Quartetto dalla posizione passiva e futile che ha rivestito fino ad ora passi a svolgere un’azione attiva e dinamica di mediazione. I gruppi di lavoro istituiti dal vertice di Riyadh sui dossier che il piano evoca (confini, Gerusalemme, rifugiati) fa pensare che nel loro quadro si negozierebbe una posizione araba, che sarebbe poi riportata nell’ambito dei Quartetti e, quindi, riproposta alle parti in causa con idonea autorità. Ma non si deve dimenticare che il Quartetto riguarda solo l’ambito israelo-palestinese e non le altre componenti del conflitto arabo-israeliano. Perciò, occorrerebbe sviluppare canali diplomatici supplementari per il Libano e la Siria, i quali – specialmente la Siria – non possono restare fuori della porta e sarebbero naturalmente portati a ostacolare una soluzione palestinese che non fosse accompagnata da una soluzione anche per loro.
Dunque, il passo di Riyadh è una premessa importate e necessaria per la ripresa di un processo politico nel Vicino Oriente ma non sufficiente. Ci sarà abbastanza motivazione nelle parti non direttamente implicate nel conflitto per far muovere le cose? Tutte queste parti, gli Usa, l’Europa, i paesi arabi, sono interessate a una ripresa del processo perché ciò è richiesto dal contesto regionale e dalla contrapposizione con l’Iran. Ci sono strategie e percezioni diverse, ma i rischi di allargamento dei conflitti che il governo radicale di Teheran pone a livello dell’intera regione fa sì che tutti siano in qualche modo interessati a riavviare un processo di ricomposizione nel Vicino Oriente onde tagliare l’erba sotto i piedi dell’Iran in Libano e Palestina, ricompattare il mondo sunnita e moderato e di qui tornare allo scacchiere mesopotamico in condizioni migliori di quelle odierne.
Questa necessità strategica postula una soluzione del conflitto arabo-israeliano. Anche Israele è interessato a questa strategia, perché la sua sicurezza è minacciata attualmente dallo stesso nemico che minaccia quella dei sunniti e degli occidentali. Ci saranno dei prezzi e dei salassi, soprattutto a carico di Israele, ma oltre che necessari a breve potrebbero essere salutari nel più lungo andare.