Medio Oriente: la diplomazia torna in campo
La conferenza regionale convocata dal governo iracheno si è svolta come previsto a Baghdad il 10 marzo. Essa ha raccolto i sei paesi vicini dell’Iraq (Giordania, Siria, Turchia, Iran, Arabia Saudita e Kuwait), i cinque membri del Consiglio di Sicurezza, la Lega Araba, e i rappresentanti di altri organismi e paesi – fra cui l’Italia – per un totale di 69 partecipanti. Nella conferenza il primo ministro Nour al Maliki ha chiamato i paesi vicini a collaborare per aiutare l’Iraq a superare i conflitti interni e recuperare la sua stabilità.
Dannose interferenze
La micidiale esplosione delle segmentazioni strutturali del paese, come conseguenza dell’introduzione di istituzioni democratiche e quindi del venir meno dello storico dominio della minoranza sunnita sui curdi e gli sciiti, crea ben note minacce e opportunità per i vicini. Questo li porta ad interferenze che certamente non facilitano la stabilizzazione dell’Iraq, quando addirittura non l’impediscono. Le interferenze, inclusa quella di al Qaida, sono non poco alla radice della polarizzazione settaria del paese. Il governo iracheno è perciò interessato a negoziare gli interessi dei vicini e raggiungere i necessari compromessi. A ciò gli Stati Uniti sono interessati almeno quanto il governo iracheno, poiché la stabilizzazione del paese è condizione di una loro uscita onorevole e non troppo costosa dall’Iraq.
La conferenza di Baghdad è stata solo un prologo che però, avendo fissato un successivo incontro nella prima metà di aprile a livello dei ministri degli Esteri – forse a Istanbul – segna comunque un successo. Se questo successo iniziale sia destinato a consolidarsi, se cioè la conferenza di Baghdad si dimostrerà l’innesco del processo di ricomposizione di cui il Medio Oriente ha disperato bisogno è difficile a dirsi.
In principio può darsi, ma occorre rendersi conto che il processo è complesso e aleatorio, perché la crisi dell’Iraq si congiunge con altri contenziosi: ora con il più generale timore dei paesi sunniti moderati che l’Iraq diventi un paese cliente dell’Iran, nel quadro di una solidarietà sciita che si saldi poi con il Libano; ora con il timore di Turchia, Iran e Siria che i curdi iracheni acquistino una marcata autonomia e questa attragga le loro minoranze curde; ora con il conflitto che oppone gli Usa alla Siria e all’Iran e ha nella crisi irachena motivi che si aggiungono ad altri e più generali contrasti, in Libano e Palestina e nello sviluppo nucleare che Teheran tenacemente persegue.
Dunque, metodologicamente è corretto il proposito sottolineato da più parti che il processo iniziato a Baghdad si limiti strettamente alla questione irachena, perché altrimenti, sotto la pressione delle inestricabili connessioni con le altre crisi, il processo salterebbe subito. Perciò, la conferenza di Baghdad non solo si è strettamente limitata alla crisi in Iraq, ma ha anche adottato un approccio limitato e tecnico: ha istituito tre gruppi di lavoro nei quali esperti appartenenti esclusivamente all’Iraq e ai paesi vicini discuteranno la sicurezza dei confini, le importazioni di carburante e i rifugiati. Però, non si può ignorare che la crisi irachena non è isolabile dal resto in quanto esistono forti connessioni fra crisi e conflitti in atto e si deve dunque presentire che tali connessioni non mancheranno di volteggiare pesantemente nell’aria.
Visioni divergenti
A causa delle interconnessioni fra i diversi conflitti è difficile capire dove sia il bandolo della matassa: occorre concentrarsi sulla regione del Golfo e la crisi dell’Iraq, oppure sulla crisi del Vicino Oriente (che con la guerra fra Israele e Hizbollah si è riallargata dall’ambito palestinese a quello israelo-arabo), oppure occorre adottare una strategia complessiva e articolata? Il problema è questo, ed è tale anche perché su queste opzioni, com’è ovvio, ci sono vedute divergenti. La differenza più rilevante è fra la diplomazia americana e quella araba, guidata oggi dal fronte dei regimi sunniti moderati, Arabia Saudita, Giordania ed Egitto in testa.
L’agenda americana si concentra sul Golfo e sull’Iraq. Negli ultimi mesi, l’Amministrazione ha progressivamente compiuto una vera e propria virata nella sua politica mediorientale, riuscendo a moltiplicare le opzioni disponibili e realizzando un opportuno mix di misure coercitive e politiche. L’apertura diplomatica americana completa la non indifferente revisione della condotta politico-militare in Iraq (pressioni per una più convincente politica di coesione nazionale da parte del governo al Maliki; decisione di migliorare la performance militare a Baghdad e in Iraq e accrescere il livello dell’intervento), e la diversificazione delle misure verso l’Iran, pur restando l’opzione di colpi militari sullo sfondo (una più aggressiva condotta anti-iraniana in Iraq, il posizionamento navale nel Golfo e, soprattutto, le sanzioni all’Iran finalmente erogate dal Consiglio di Sicurezza).
Questo non significa che gli Usa abbiano cessato di preoccuparsi del Libano, della Siria e della Palestina. Essi intendono tornare su queste crisi ma solo quando si saranno rafforzati nel Golfo. La politica americana non crede che accordi e riavvicinamenti alla Siria, allo Hizbollah e a Hamas servano a tagliare l’erba sotto i piedi dell’Iran o facilitino la soluzione dei problemi in Iraq. L’amministrazione americana vede un serpente e ne vuole tagliare la testa.
La diplomazia araba crede invece che occorra affrontare le crisi simultaneamente. Innanzitutto occorre sottolineare che gli attori regionali hanno in genere moltiplicato i loro contatti diplomatici, con una non indifferente partecipazione al gioco da parte della Turchia. Negli ultimi pochi mesi, Turchia, Siria e Iran si sono tenuti in stretto contatto in relazione alla questione curda. Ci sono state visite ufficiali fra Iraq e Siria, sebbene non prive di strumentalizzazioni (dei curdi iracheni) e di ambiguità (siriane, in merito ai rifugiati baathisti). All’inizio di marzo c’è stata una visita ufficiale di Ahmadinejad a Riyadh (che invero è apparsa piuttosto inconcludente).
Oltre l’attivismo della diplomazia intra-regionale, una linea consistente emerge dagli sforzi dell’Arabia Saudita, della Lega Araba e dell’Egitto. Questa linea ritiene che la crisi irachena non possa essere stabilizzata separatamente dagli altri problemi regionali. Essi hanno lo stesso avversario finale degli Usa, cioè l’Iran, ma a differenza degli Usa ritengono che, da un lato, occorra migliorare le politiche volte ad assicurare la coesione dell’Iraq; dall’altro, che una soluzione del problema arabo-israeliano sia imperativa e pregiudiziale, onde tagliare l’erba sotto i piedi degli estremisti e permettere ai regimi sunniti moderati di avvantaggiarsi dell’alleanza con gli Usa senza che ciò costituisca un onere all’interno.
La questione israelo-palestinese
Gli arabi moderati hanno approvato la nuova politica americana in Iraq (presentata dalla Rice nel suo recente tour della regione), sperando che interrompa la deriva filo-sciita degli Usa e inauguri invece una politica di coesione nazionale capace di integrare i sunniti. Ma, a differenza degli Usa, ritengono che debbano essere prese iniziative anche nei confronti dei palestinesi e degli israeliani. C’è stato l’accordo fra Hamas e Fateh alla Mecca sotto l’ombrello saudita. La carta principale è, però, il rientro in pista del Piano Saudita, approvato originariamente dalla Lega Araba a Beirut nel 2002, confermato a Khartoum nel 2006. Il Piano sarà ripreso il 28-29 marzo al vertice della Lega Araba a Riyadh. Esso è ben visto da non pochi israeliani. Sembra che ci siano colloqui riservati fra Israele e Arabia Saudita per modifiche o acconce aperture su quei punti che per gli israeliani sono inaccettabili (soprattutto in tema di “ritorno” dei palestinesi) o superati (l’accordo a sia pur limitati aggiustamenti territoriali negoziati, intervenuto dopo il 1967). Mentre gli Usa possono andare avanti da soli con la loro strategia (anche se a rischio di sbagliare), non è così per i sauditi e gli altri regimi arabi: un assenso israeliano ad accettare il Piano Saudita, anche solo come piattaforma di riferimento, è condizionato da una luce verde americana.
Dunque, ci sono due linee diverse (anche se non opposte), ma la linea araba non ha autonomia sufficiente: essa abbisogna del sostegno americano o, almeno, deve non trovare l’opposizione degli Usa. C’è un punto su cui Usa, Arabia Saudita e Egitto sono d’accordo: l’opposizione (americana) e lo scarso interesse (arabo) per un negoziato bilaterale fra Siria e Israele, che molti osservatori ritengono invece il locus minoris resistentiae è al tempo stesso il mezzo per rompere la catena che alimenta l’egemonia iraniana nella regione. Egitto e Arabia Saudita preferiscono che il Golan torni in mano siriana come risultato della realizzazione del Piano Saudita. Essi non si illudono che la riconsegna del Golan cambi le mire regionali del regime siriano.
Sui palestinesi c’è invece un disaccordo, perché mentre gli arabi ritengono – come alcuni israeliani – che la ricomposizione palestinese debba far posto a Hamas in modo da staccarlo da Teheran, gli Usa e gran parte degli israeliani credono che qualsiasi soluzione debba passare per la sconfitta di Hamas e l’emergere di un interlocutore palestinese adeguato. Se questo non è possibile oggi, si deve aspettare tenendo duro con l’isolamento di Hamas e preparandosi a tornare sull’argomento quando la situazione del Golfo sarà – sperabilmente – cambiata. Entro aprile si avranno alcune risposte.