Il lungo cammino della Conferenza sull’Iraq
L’annuncio di qualche giorno fa della convocazione di una conferenza regionale sull’Iraq da parte del governo di Baghdad potrebbe segnare una svolta nel tumulto che si è ormai istallato in Medio Oriente e l’inizio di una fase di normalizzazione. Anche se così fosse, al punto in cui sono arrivate le cose, diciamo subito che la strada si paleserà assai in salita. Tuttavia, potrebbe aprirsi una via.
Il ruolo cruciale degli Usa
Di conferenza regionale si parlò specialmente in Europa subito dopo il cessate il fuoco fra Israele e l’Hizbollah nel sud del Libano, nel pieno dell’agosto 2006. Lo IAI e l’IPALMO organizzarono su questa prospettiva un seminario internazionale nel novembre 2006. Il governo italiano mostrò interesse per l’ipotesi, ma in Europa la conferenza veniva pensata più nel Vicino Oriente che nel Golfo, cioè focalizzata sulla questione israelo-palestinese e araba piuttosto che sull’Iraq.
Il documento del seminario IAI-IPALMO proponeva una conferenza omnicomprensiva, che includesse o almeno non lasciasse fuori anche l’Iraq, e questo perché occorreva tenere conto del fatto che gli Stati Uniti sarebbero stati indispensabili all’eventuale conferenza e, com’è noto, il focus dell’amministrazione non è sulla Palestina ma sull’Iraq. Dunque per avere gli Usa bisognava avere anche l’Iraq (se non solo l’Iraq). Ma della conferenza non se ne fece nulla, né nel Levante né nel Golfo, perché senza gli americani una conferenza regionale non ha senso e, come è stato appena ricordato, il governo Usa non ha sin qui mostrato nessun interesse per un’ipotesi del genere.
Non ha mostrato interesse neppure quando la conferenza regionale, con l’inclusione di Iran e Siria, è stata una delle proposte di spicco dell’ Iraq Study Group , il gruppo “bipartisan” guidato dai senatori Baker e Hamilton.
L’annuncio della conferenza regionale convocata da al-Maliki potrebbe dunque segnare un cambiamento, poiché non sembra possibile che Baghdad si sia mossa senza una concertazione con Washington e, anche se l’ha fatto, ciò che conta è che Washington ha accettato. La previsione è di una riunione nella prima metà di marzo a livello di rappresentanti diplomatici e una seconda in aprile a livello di ministri degli Esteri.
Obiettivo stabilizzazione
La conferenza sarà strettamente e solamente dedicata all’Iraq e alla sua stabilizzazione. Ne restano dunque fuori la questione palestinese, quella libanese e le molti voci in favore della ripresa di un negoziato fra Israele e Siria. Ne rimane escluso anche il contenzioso sempre più aspro con l’Iran. Tuttavia, un’intesa sulla stabilizzazione dell’Iraq non potrebbe che ripercuotersi su tutte queste questioni. Allo stesso modo, nel puntare alla normalizzazione irachena, non può mancare una considerazione delle altre questioni regionali. Tutto è legato in Medio Oriente.
Come si presenta la conferenza? La risposta dipende molto dalla valutazione che si può oggi dare sulla direzione della politica estera americana verso questa regione: la direzione non è chiara, nel senso che ci sono segni di un cambiamento verso il maggior realismo invocato da vecchie glorie repubblicane come Kissinger e Baker, ma questi segni non sono per ora facilmente decifrabili. Il portavoce della Casa Bianca ha detto, a chi interpretava l’”engagement” della Siria e dell’Iran come un cambiamento, che invece nella politica estera americana non c’è nessuna novità. In realtà, una serie di cambiamenti ci sono, il più rilevante dei quali sembra essere una condotta assai articolata che nel passato da parte dell’Amministrazione. Questa articolazione dà una profondità strategica alla politica mediorientale americana che finora le è mancata.
Questo non significa che l’Amministrazione si è convinta a essere meno unilaterale, perché così non è. Quello che si vuol dire è che, in breve tempo, una politica di pressioni fatta solo della minaccia di attaccare militarmente l’Iran è stata dapprima affiancata dal successo diplomatico in seno al Consiglio di Sicurezza, che ha erogato sanzioni, per quanto leggere, e, poi, dalle forti pressioni sulla presenza iraniana in Iraq (l’autorizzazione a colpire agenti di Teheran, gli attacchi a esponenti delle brigate Al Quds, le accuse di fornire armi letali agli sciiti, etc.).
A questi passi si aggiunge oggi la conferenza, cioè un approfondimento della prospettiva diplomatica. Ma questo approfondimento diplomatico avviene in un contesto di forza, soprattutto grazie alla porta socchiusa dal Consiglio di Sicurezza alla sanzioni. La scadenza fissata nella risoluzione è passata qualche giorno fa senza che l’Iran si sia conformato a quanto richiesto dalla risoluzione stessa. Non c’è dubbio che gli Usa andranno alla conferenza, ma continueranno nelle loro pressioni in Iraq e rafforzeranno i loro sforzi perché il Consiglio di Sicurezza approvi una risoluzione più severa. Le pressioni sugli alleati per una nuova e più dura risoluzione sono già iniziate, fra gli altri sull’Italia (in un momento in cui per vari motivi le relazioni non sono molto felici).
Alla conferenza, dunque, gli americani non vanno in condizioni di debolezza, ma come a una tappa di una più ampia e più efficace strategia di pressione. Sappiamo, d’altra parte, che in Iran la condotta del presidente Ahmadi-Nejad suscita opposizioni e soprattutto preoccupazioni. In Siria, inoltre, la necessità di avere un colloquio con gli Usa e un allentamento della pressione sul regime è urgente. Vero è che la Siria risponde con molta abilità e con perizia, usando tutte le carte in suo possesso, ma il regime si sente molto insicuro e preferirebbe che le pressioni americane avessero un termine. Si sa che l’obiettivo di Damasco è solo molto secondariamente di riavere il Golan e in primissimo luogo, invece, di avere una sorta di “clausola Gheddafi” (ma la questione non è così semplice come per la Libia).
Dunque, la conferenza tratterà dell’Iraq, ma su uno sfondo regionale che dominerà le questioni propriamente irachene. È difficile che la conferenza raggiunga subito dei risultati, sia per quanto riguarda l’Iraq sia per quanto riguarda l’insieme della regione; è più probabile che si palesi come una tappa di un processo – probabilmente lungo e difficile – di ricomposizione degli equilibri regionali. Sarebbe comunque un’auspicabile e utile inversione di tendenza.