Tra spinte euro-atlantiche e pressioni nazionalistiche
Nell’ultimo mese la Serbia è stata al centro di avvenimenti rilevanti sia per il suo futuro che per quello dell’intera regione balcanica: le elezioni per il rinnovo del Parlamento e la presentazione del piano Ahtisaari per la definizione dello status del Kosovo.
Dopo le elezioni
Le elezioni parlamentari dello scorso 21 gennaio hanno dato risultati non molti lontani dalle aspettative: il Partito radicale serbo si è confermato come la formazione politica più forte in termini di consensi (28,5%), ma ad emergere è stato il cosiddetto “blocco democratico”, composto dal Partito democratico (22,8%), dal Partito democratico serbo (16,3%) e dal Partito G17 plus (6,8%). In Parlamento sono presenti anche rappresentanti del Partito socialista serbo e del Partito liberale democratico, soggetti politici che hanno superato il quorum del 5% di pochissimo; inoltre vi sono anche otto rappresentanti delle diverse minoranze etniche, tra le quali per la prima volta in assoluto la minoranza Rom.
Le consultazioni ufficiali del Presidente Tadic con i diversi leader politici per la formazione del nuovo governo sono iniziate il 14 febbraio, e dovranno chiudersi al massimo entro tre mesi. La possibilità di un governo guidato dagli ultranazionalisti sembrerebbe da escludersi, infatti gli stessi dirigenti di partito hanno dichiarato di non esser disposti ad allearsi con nessun altra forza politica, in quanto tutte pro-europeiste quindi avverse agli interessi serbi.
Più convincente sembrerebbe l’ipotesi di un governo liberale, riformista e filoeuropeo composto dal Partito democratico, dal Partito democratico serbo e dal Partito G17 plus. Ma anche questa strada è tutta in salita: la politica economico-liberale costituisce un importante punto in comune tra le varie forze, ma al loro interno sussistono rilevanti differenze politiche e vanità personali non facili da appianare. Potrebbero costituire ostacoli di non poco conto la scelta del premier, la posizione da assumere riguardo il nuovo status del Kosovo e l’instaurazione di una più stretta collaborazione con il Tribunale Penale Internazionale (Tpi).
Senza dubbio tali questioni rappresentano nodi difficili da sciogliere per i due partiti democratici. Koštunica difficilmente accetterà di perdere il governo a favore di Djelić (leader della seconda forza più votata) secondo il principio dell’alternanza. Inoltre nonostante entrambi i partiti si dichiarino aperti all’Europa e allo stesso tempo contrari alla secessione del Kosovo, tra loro permangono differenze non secondarie: il Partito democratico si è dichiarato pronto a stringere una più seria collaborazione con il Tpi e allo stesso tempo ha dimostrato una discreta propensione al dialogo e al confronto riguardo il Kosovo. Il Partito democratico serbo, invece, continua a mantenere un atteggiamento timido verso il Tpi e una posizione di forte chiusura rispetto alle possibilità di autonomia della provincia albanese. Ciò lascia presagire una lunga fase negoziale prima che si giunga alla formazione del nuovo governo.
Il problema del Kosovo
Il 2 febbraio il commissario dell’Onu Martii Athisaari ha presentato, prima a Belgrado poi a Pristina, le sue proposte di soluzione sulla questione del futuro status del Kosovo, provincia serba popolata per oltre il 90% da popolazione albanese. Il piano prevede un Kosovo democratico e multietnico che abbia simboli nazionali propri, possa contare su una sua forza di sicurezza e abbia il diritto a negoziare e sottoscrivere accordi internazionali. Non potrà avanzare alcuna pretesa territoriale nei confronti di altri stati, né potrà congiungersi ad altri paesi. Avrà l’obbligo di tutelare le minoranze tradizionalmente presenti sul suo territorio ed il dovere di proteggere i luoghi di culto e le proprietà della chiesa ortodossa interni ai suoi confini. La comunità internazionale deterrà tutti i poteri necessari per garantire un’effettiva ed efficace implementazione di quanto previsto dal piano.
La risposta di Belgrado non si è fatta attendere: un coro di niet spezzato dal solo Jovanović, il cui Partito liberale democratico filo-occidentale si è sempre dichiarato disposto ad accettare la secessione del Kosovo. La reazione delle altre forze politiche, specie di Koštunica, e della Chiesa ortodossa serba è stata molto dura: la provincia kosovara rappresenta la culla della fede e della civiltà serba e, come previsto dalla Costituzione varata lo scorso ottobre, è parte integrante della stessa Serbia.
Qualche timido cenno di apertura da parte serba sembra essere giunto negli ultimi giorni, in seguito alla visita dell’Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza dell’Ue, Solana, quando il Presidente Tadić, ha dichiarato la propria partecipazione ai negoziati di Vienna. La versione del piano stilata da Athisaari in seguito alle consultazioni con le parti verrà poi presentata al Consiglio di Sicurezza dell’Onu che dovrà definire la questione.
Le pressioni internazionali
Gli stati europei e la stessa Ue hanno valutato positivamente i risultati elettorali raggiunti in Serbia, però la politica da adottare nei confronti di Belgrado rimane oggetto di discussione. A favore della fermezza e del rigore sono Belgio, Olanda e Finlandia e in misura leggermente più moderata anche Gran Bretagna, Francia e Germania. Tali paesi chiedono quanto già ribadito da Carla Del Ponte, Procuratore Generale del Tribunale Penale Internazionale: la consegna da parte delle autorità serbe del fuggitivo Mladić è condizione necessaria per riaprire i negoziati per l’Accordo di Associazione (Asa) e stabilizzazione con Belgrado. Invece il Ministro degli Esteri italiano Massimo D’Alema si è dichiarato propenso alla politica del dialogo fondata su una strategia del bastone e della carota, sulla riapertura immediata dei negoziati Asa e sulla firma dell’accordo solo in seguito alla consegna di Mladić. Posizioni analoghe sono state assunte anche da Spagna, Austria, Slovenia e Slovacchia.
In Europa anche il piano Athisaari è stato accolto con generale consenso: l’Ue sta impegnando tutta la propria pressione diplomatica per indurre le parti alla flessibilità e al compromesso. Forte sostegno giunge anche dagli Usa, da sempre sostenitori dell’indipendenza kosovara. Posizioni tendenzialmente contrarie provengono invece sia dalla Russia che dalla Cina, tradizionalmente molto vicini alla Serbia e soprattutto preoccupati che l’indipendenza del Kosovo possa costituire un precedente pericoloso per regioni interne ai loro confini in cui sono presenti spinte secessioniste.
Verso quale futuro
Attualmente il futuro della Serbia è legato a un dilemma: politica euro-atlantica vs politica nazionalista. Un aut aut che ha caratterizzato la vita serba durante l’intera evoluzione statuale jugoslava, avvenuta per scissioni inizialmente violente, oggi pacifiche.
In questi anni il nazionalismo è stato assorbito a livello politico secondo una logica fluida che va al di là dell’asse destra-sinistra, per cui si assiste al paradosso dell’esistenza di una formazione partitica filo europea, quale il Partito democratico serbo, che però detiene forti connotati nazionalisti in riferimento al Kosovo.
Il futuro di questa regione rappresenta per la Serbia l’ultimo nodo da sciogliere. Riconoscerne l’indipendenza sul piano interno sarà una scelta dal costo altissimo per il nuovo governo (in termini sia di reazioni parlamentari, sia di consensi popolari), ma la pressione internazionale la renderà inevitabile. Al riguardo, però, sarà estremamente rilevante il comportamento assunto dall’Ue: la Serbia costituisce il centro nevralgico dei Balcani, quindi per la stabilità dell’intera area è necessario sia sostenuta da una politica europea di dialogo, mediazione ed incentivi, affinché non venga lasciata sola in un momento così delicato, ma rimanga invece proiettata verso l’Europa.
I cittadini serbi il 21 gennaio hanno espresso una chiara opzione per le forze politiche democratiche, liberali e filo-europee: ora spetta al nuovo governo farsi carico dell’impegno demandatogli dai suoi cittadini, riuscendo anche a spiegare loro scelte impopolari, ma necessarie per raggiungere l’obiettivo più ambito: la democratizzazione della Serbia e la sua adesione alla Ue.