Per il Kosovo una strada in salita
Il piano per il rinnovo dello statuto del Kosovo, presentato il 26 gennaio scorso a Vienna dal commissario dell’Onu, Martti Ahtisaari , propone per il paese un’indipendenza senza sovranità ed è un compromesso fra chi desiderava un prolungamento dello statuto di protettorato che vige dal 1999 e chi invece auspicava una sostanziale separazione del Kosovo dalla Serbia.
Scontata reazione serba
Il piano Ahtisaari non parla espressamente né di indipendenza né di sovranità. Esso prevede che il Kosovo usi simboli nazionali, possa inviare ambasciatori, avere una sua polizia e un servizio d’informazione, ed essere membro di organizzazioni internazionali. Questa ampia libertà d’azione in politica estera sarebbe limitata però da un commissario dell’Onu o dell’Unione Europea, con diritto di veto sugli atti che vengano meno al divieto di congiungersi ad altri paesi – nella fattispecie, le altre entità albanesi della penisola – al divieto di scissione dell’area settentrionale in cui si trova ciò che resta della minoranza serba in Kosovo, all’obbligo di proteggere questa minoranza e darle adeguati diritti, e all’obbligo di proteggere i circa 40 siti della chiesa serbo-ortodossa che restano nel territorio kosovaro nonché la lingua serba. Sono questi divieti ed obblighi che limitano la sovranità di un Kosovo che, per il resto, agirebbe come un paese indipendente.
A questo piano la reazione serba, inclusa quella dei partiti non nazionalisti e del filoeuropeo presidente Tadic, è stata nettamente negativa. Non poteva che essere così per i serbi nazionalisti. I serbi moderati sarebbero pronti a discuterne, ma avrebbero bisogno di una più efficace mediazione politica europea, una mediazione che, come subito diremo, è molto debole. Esso è stato invece accolto positivamente dalla dirigenza del Kosovo. Per i kosovari il segnale di un’indipendenza anche senza sovranità è sufficiente perché, giustamente, essi vi vedono l’innesto di un processo di indipendenza e distacco da cui nessuno potrà più tornare indietro. Il piano deve ora essere discusso e approvato dal Consiglio di Sicurezza e dai paesi che più sono coinvolti nella tutela del Kosovo.
Gli americani hanno sempre sostenuto e continuano a sostenere l’emergere di un Kosovo con pieni attributi statuali. Il piano Ahtisaari non corrisponde alle loro aspettative, ma tatticamente potrebbe per loro essere accettabile. In Europa nessuno si oppone alla separazione nel lungo termine, ma si teme che precipitare tale sviluppo prima che si sia stabilizzato un corso democratico e non nazionalista in Serbia sarebbe deleterio sia per il futuro politico della Serbia, sia perché ravviverebbe le altre spinte secessioniste esistenti nei Balcani – ora contenute dai vari interventi internazionali, ma sempre vive, specialmente in Bosnia – sia, infine, perché incoraggerebbe le aspirazioni secessioniste alla radice di altre gravi crisi in più lontani teatri regionali, come il Caucaso e l’Iraq.
Il piano Ahtisaari appare dunque prematuro, dal punto di vista mediamente accettato dagli europei. Tuttavia, la Francia – membro del gruppo di contatto sul Kosovo assieme a Italia, Germania, Regno Unito, Stati Uniti e Russia – ha invece subito salutato positivamente il piano Ahtisaari. L’Unione, per bocca del Segretario Generale, l’ha apprezzato ma con un breve comunicato per il resto piuttosto anodino. La Russia sarà sicuramente negativa. Nei giorni prossimi si saprà degli altri maggiori protagonisti, inclusa l’Italia.
Iniziativa europea
Le inconcludenti elezioni del 21 gennaio scorso in Serbia non hanno certo aiutato gli europei. D’altra parte, qualcuno osserva che sarebbe necessaria un’iniziativa dell’Unione più dinamica e convinta se si vuole rafforzare le componenti non nazionaliste della Serbia e preparare il terreno ad una separazione consensuale e negoziata. Al contrario, l’iniziativa europea negli ultimi sei mesi – mentre la scadenza dello statuto del 1999 si avvicinava – non è stata né dinamica né convincente. Il Consiglio dell’Unione, riunito il 22 gennaio 2007, ha dato una valutazione positiva delle elezioni in Serbia, sottolineando che i risultati “indicano una chiara maggioranza ai partiti orientati verso la riforma”, ma la realtà è che questi partiti non hanno ottenuto un’affermazione sufficiente a prendere in mano da soli il governo del paese.
Lo stesso Consiglio ha affermato che “L’Ue resta pronta a sostenere la Serbia nella sua prospettiva europea”, ma è noto che esistono precondizioni politiche perché ciò avvenga, precondizioni che la relativa debolezza delle forze democratiche serbe non consente ancora di soddisfare, a cominciare dalla questione degli accusati di crimini di guerra. Mentre queste condizioni non possono essere certo lasciate cadere dall’Ue, un’iniziativa più aggressiva in termini di preparazione del paese alla candidatura europea sarebbe possibile e necessaria. Ma essa non si decide ad emergere e, d’altra parte, nel contesto di pessimismo, ripensamenti sull’allargamento e rinazionalizzazione che i paesi europei stanno attraversando, sembra difficile che possa farlo.
In questo contesto, per inerzia è emerso il piano Ahtisaari, né poteva emergere qualcosa di molto diverso. Vero è che il piano assicura alcuni obiettivi imprescindibili della comunità internazionale, come la protezione della minoranza serba ma, se questo salva la coscienza della comunità internazionale e dell’Europa, l’indipendenza relativa che il piano assicura al Kosovo è, in prospettiva, chiaramente il fattore destinato a rafforzarsi e vincere. Mentre lo statuto delle minoranze e gli altri obblighi e divieti del mandato proposto dal piano daranno luogo a discussioni e contrasti infiniti e logoranti, a Pristina la gestione concreta dell’indipendenza viaggerà tranquilla e spedita. Se perciò il piano verrà approvato dal Consiglio di Sicurezza, mentre la scommessa sull’indipendenza sarà praticamente vincente, su tutto il resto ci saranno alee diverse e numerose.
Come si è accennato, oltre al futuro della Serbia e del Kosovo, l’impatto indiretto della scelta che il Consiglio di Sicurezza ha di fronte non è indifferente. Non solo l’Abkhazia, l’Ossezia del Sud e la Transdniestra, ma anche i curdi si rafforzeranno nel loro orientamento secessionista. Lo stesso accadrà per i serbi bosniaci e, più in generale, nei Balcani e altrove le tendenze alla frammentazione si sentiranno confortate dall’idea che, se una certa scelta è stata fatta per il Kosovo, ci sono ragioni per insistere affinché sia fatta anche altrove.
Dal punto di vista europeo, se vittima di questa scelta dovesse essere l’evoluzione democratica della compagine politica serba e se la scelta dovesse avere ripercussioni serie negli equilibri dei Balcani stessi, sarebbe certo un grave problema. A differenza dell’Iraq, dove tutti i treni sono stati ormai persi, l’operazione di nation-building nei Balcani continua nel complesso ad avere buone chances. Tuttavia, il piano Ahtisaari – evitabile o inevitabile che sia – allunga terribilmente i tempi e accresce decisamente il peso del sostegno europeo a un’area peraltro imprescindibile per la sua sicurezza.